Le tre faville c’hanno i cuori accesi
di Eligio Piccolo
30 Giugno 2021

Dante Alighieri, di cui celebriamo i 700 anni dalla scomparsa, è l’autore dei due celebri versi: “superbia, invidia e avarizia sono/ le tre faville c’hanno i cuori accesi”. Certamente ben contestualizzate nella risposta profetica che espresse Ciacco contro i politici fiorentini del tempo, ci mancherebbe; ma lo strano, potrebbe eccepire il sofista, è l’averli messi in bocca a quel concittadino del poeta, noto per le sue intemperanze alimentari e ritrovato per l’appunto nel cerchio dei golosi nell’Inferno. Fosse successo oggi, epoca di superalimentati, forse gli avrebbe fatto stigmatizzare altre faville che lo penalizzavano e che verosimilmente si portava addosso, l’obesità con gli altri due e più fattori di rischio. Quelli che invece Dante, magro, asciutto e dalle abitudini sobrie certamente non aveva; il quale peraltro morì a soli 56 anni non per infarto o ictus, ma perché, “ghibellin fuggiasco” nella terra dei da Polenta, fu vinto da una febbre malarica, contro la quale allora non c’era l’antidoto.

Ad attualizzare oggi quelle faville contro i moltissimi Ciacco di tanti paesi benestanti del mondo in cui viviamo ci hanno pensato quattro gruppi di ricercatori degli USA, che su Neurology di marzo 2021 riportano uno studio epidemiologico così ben strutturato che i futuri di certo definiranno storico. Sono stati seguiti complessivamente 15.000 soggetti fra i 18 e i 95 anni, confrontando tra loro le fasce dei più giovani con quelle di mezza età e dei vecchi, secondo l’influenza sulla loro salute mentale dell’obesità, delle pressioni alte e degli aumenti dello zucchero nel sangue. Le tre “faville” patologiche che sono risultate nocive per lo sviluppo di futuri disturbi della memoria e del comprendonio, quelli che i neurologi definiscono cognitivi. Il dato interessante in questa comparazione è che il colesterolo ancorché aumentato non raggiunge la significatività statistica di elemento nocivo. Che la dice lunga sulle eccessive colpe che la medicina moderna gli ha riservato, nonché sulla guerra farmacologica per abbassarlo e, al contrario, sulla sua presenza come componente indispensabile proprio nei neurociti, le cellule che dentro il nostro cranio pensano.
Lo studio pubblicato su Neurology, diretto dalla dottoressa Kristine Yaffe della California University di San Francisco, merita di essere meglio analizzato per rilevarne l’importanza della metodologia e dei risultati. In primis l’essersi lei e colleghi soffermati sulla fascia di età giovanile, 20-30 anni, perché l’aumento delle tre faville (obesità, ipertensione, iperglicemia) proprio in questo periodo così precoce della vita agisce come causa maggiore dei disturbi psicologici successivi. Poi il fatto di aver controllato a tutti le facoltà cognitive ogni due anni, permettendo di verificare che l’aumento di quei fattori di rischio determinava le conseguenze negative sui test psicologici già dopo dieci anni. Confermando l’osservazione del British Coort Study (Lancet 2019) di una riduzione del 25% del volume in chi appartiene a quegli intemperanti. E inoltre che l’età più a rischio di generare demenze future tra questi “buongustai”, è quella dei 36 anni, “nel mezzo del cammin di nostra vita”.
Si potrebbe concludere di avere una decisa attenzione soprattutto sui giovani, il ché è vero, ma non sarebbe tutto. Perché gli anziani e i vecchi, sia coloro che hanno subito una qualche menomazione, sia i più fortunati o i giudiziosi, costituiscono secondo le loro elaborazioni una categoria di particolare attenzione. Nella quale si osserva la misteriosa invasione della sostanza amiloide nelle cellule cerebrali, cui seguono come si sa varie demenze, compreso l’Alzheimer; ma anche una minore suscettibilità a divenire demente in chi vi sia giunto, peccatore o meno, senza averne ancora i segni. Il vecchio è risultato di per sé anche un soggetto sensibile ai trattamenti troppo aggressivi, specie nei confronti della pressione arteriosa. Gli sbalzi, non solo della massima verso l’alto, ma pure quelli e di entrambe, massima e minima, verso il basso possono pregiudicare il difficile equilibrio a quell’età. “Dejalo ser”, lascialo fare, intitola una poesia messicana, nella quale l’anonimo autore consiglia di avere la massima attenzione verso l’anziano “perché soffre se appena sente/ venirgli meno pezzi di vita”.
A voler dare una conclusione, purtroppo moralistica, dobbiamo riconoscere che anche in medicina le tre faville dantesche sono e persistono accese. La superbia si insinua non solo nella supponenza di molti medici e ricercatori, che presentano le loro scoperte come verità insindacabili, ma pure nel modo sbrigativo e per nulla empatico con cui offendono l’attesa del paziente. Diceva Einstein che “il valore vero di un uomo si determina esaminando in quale misura e in che senso è giunto a liberarsi dell’io”. L’invidia è spesso quella delle qualità e dei meriti che si vorrebbe avere, e che ci conducono a una lotta fine a sé stessa. L’avarizia, non tanto la ricerca del guadagno, è più spesso la difficoltà nel donare la convinzione delle proprie conoscenze, donazione che invece si rivela direttamente proporzionale alla fatica e al piacere di averla acquisita. Ci ricorda Isaac Asimov che ”l’aspetto più triste di una giusta vita attuale è che la scienza progredisce nella conoscenza più di quanto la società aumenti in saggezza”, e aggiungerei “il medico in umanità”.

Eligio Piccolo
Cardiologo