“TROPPO” ESERCIZIO “STROPPIA”?
di Antonella Labellarte
30 Gennaio 2012

Un’attività fisica regolare è raccomandata dalla comunità medica perché modifica il profilo di rischio cardiovascolare e riduce la mortalità e morbilità per aterosclerosi coronarica. Anche in queste pagine l’esercizio fisico è un po’ un tormentone (vedi tante newsletter in archivio) e se ne sottolineano i vantaggi per l’apparato cardiovascolare e non solo.
Ma se da un lato vi è la parte più sedentaria e pigra della popolazione che va stimolata a combattere obesità, diabete, dislipidemia e ipertensione con un esercizio fisico costante, dall’altro, vi sono i “forzati” dell’attività fisica, quelli che si sottopongono ad allenamenti faticosi richiedendo a se stessi prestazioni sempre più elevate, pur appartenendo a categorie amatoriali. Questi sportivi, ovviamente, non sono sottoposti ai rigorosi controlli medici dei professionisti.

Da tempo è noto che un esercizio fisico strenuo può aumentare il rischio di morte improvvisa e di infarto del miocardio. Fino ad oggi, però, non è stato possibile identificare il meccanismo alla base del danno provocato al cuore. Adesso i ricercatori , grazie alle nuove e più sofisticate tecniche di imaging, iniziano a comprendere il danno sottostante: con tecniche avanzate di risonanza magnetica e l’utilizzo del mezzo di contrasto gadolinio, si è potuto documentare nel cuore la presenza di fibrosi, aree del muscolo cardiaco che vanno incontro ad una modificazione della propria struttura e diventano più vulnerabili e suscettibili all’innesco di aritmie minacciose per la vita.

Fino al 50% degli atleti di resistenza, che si spingono al limite dell’attività, sviluppano aree di fibrosi miocardica, che possono non divenire evidenti per anni. Ma la risonanza magnetica con tecniche avanzate non può essere utilizzata come screening di routine ed inoltre, può accadere che le zone di fibrosi si “risolvano” spontaneamente, una volta consentito al cuore di “riposare”.
Tuttavia, poiché un numero crescente di atleti, soprattutto maschi di mezza età, partecipano alle maratone e alle competizioni di triatlhon, alla luce delle recenti evidenze, diviene importante poter identificare coloro i quali sono geneticamente suscettibili e, quindi, potenzialmente a rischio.

Il professore di cardiologia al St. George’s Hospital di Londra, Sanjay Sharma, direttore medico della maratona di Londra, una delle cinque più importanti maratone al mondo, ha di recente pubblicato un lavoro sul Journal of Applied Phisiology. Vi hanno partecipato soltanto atleti maschi canottieri o runners di lunga distanza che avevano fatto parte della squadra nazionale britannica o del team olimpico. Dodici del gruppo avevano un’età compresa tra 50 e 67 anni, altri 17 un’età tra 26 e 40 anni. Un gruppo di 20 uomini, dall’età media di 50 anni, è stato utilizzato come controllo. Ebbene, nessuno degli atleti giovani e dei non atleti di mezza età aveva segni di fibrosi miocardica che era presente, invece, nella metà degli atleti di età più avanzata. Indiscutibilmente il danno era presente in coloro i quali si erano allenati più duramente e più a lungo.

Il professor Sharma ha ora deciso di verificare se i segni rilevati negli atleti di elite sono presenti anche negli sportivi amatoriali e per questo sta studiando coloro che hanno corso tutte le maratone di Londra dal 1981, data del suo inizio, ad oggi.
Nel mondo occidentale diversi milioni di persone competono regolarmente nelle maratone (42,195 km di corsa pari a 26 miglia), almeno 60.000 amatori, nella sola Europa, si iscrivono ogni anno alle gare di triathlon su distanza super lunga (corsa 42,195 km, ciclismo 180 km, nuoto 3800 m). Il fenomeno è crescente e può darsi che solo oggi, dopo circa 30 anni, si inizi ad osservare l’effetto sul cuore di tali prolungati ed intensi allenamenti.
Fino ad oggi, comunque, non vi è evidenza che gli atleti abbiano un rischio aumentato di morte. Ma il dibattito è aperto tra gli studiosi, che recentemente in una riunione presso la Royal Society of Medicine di Londra hanno discusso le ultime evidenze. Sebbene le controversie siano importanti, hanno convenuto che fino a quando la ricerca non sarà in grado di identificare i sottotipi della popolazione geneticamente a rischio, i benefici dell’attività fisica superano i rischi.
Buon senso vuole che si sottolinei che gli amatori che si sottopongono ad allenamenti molto impegnativi, spingendo sempre più in là i propri limiti, si affidino a controlli medici rigorosi e costanti.

Fonte :
Lois Rogers. Cardiologist find evidence why too much exercise might be bad for you. Eur Heart J 2011; 32: 2589-90

Antonella Labellarte
Cardiologa
Ospedale S. Eugenio, Roma