Una recente rivisitazione del sempre interessante GISSI-HF (Mantovani A et al Metabolism. 2018;83:205-215) consente di aprire una riflessione sul rapporto non semplice tra uricemia e cardiologia italiana (e non solo, per la verità).
Indipendentemente da come si approcci al problema – si creda cioè o meno al rapporto causale tra iperuricemia e progressione del danno cardiaco nel paziente con scompenso – è quanto meno poco opinabile che una uricemia superiore a 6 mg/dL è comunque combinata nel paziente con scompenso cardiaco ad una maggiore possibilità di manifestare problematiche cardiorenali e/o morte.
Ciò è perfettamente confermato dalla disamina operata da Mantovani e colleghi sui “vecchi” dati dello studio GISSI-HF: i 2246 pazienti con valori di uricemia superiori a 7.2 mg/dL avevano, rispetto ai 2200 con uricemia inferiore a 5.7 mg/dL, un rischio di morire aumentato di 1.8 volte. Anche il rischio di ospedalizzazione era aumentato di 1.5 volte, sempre secondo lo stesso confronto. Pertanto, causalità o non causalità, una uricemia elevata fa quantomeno da marcatore di peggiore prognosi e, ne consegue, varrebbe sicuramente la pena cercare di contrastarne l’insorgenza/ridurne l’entità.
In questo contesto, al contrario, è interessante osservare nelle pieghe della bella pubblicazione di Mantovani et al come il trattamento ipouricemizzante sia poco conosciuto dai cardiologi italiani. Appena il 27% dei già citati 2246 pazienti francamente iperuricemici (uricemia media = 8.9 ± 1.5 mg/dL), infatti, ricevevano un trattamento con allopurinolo, unico farmaco allora disponibile per la cura dell’iperuricemia. Il dato, va detto, non deve indurre alla depressione il bravo cardiologo italiano: anche il recente e multinazionale studio PARADIGM-HF ha confermato (in tempi molto più recenti rispetto al GISSI-HF) come meno di un paziente scompensato con marcata iperuricemia ogni cinque pazienti ricevesse, al termine dello studio, un trattamento ipouricemizzante.
E’ tempo, pertanto, di avere maggiore attenzione nei confronti di un parametro che, comunque la si pensi in merito, è forse una concausa, certamente un marcatore di progressione del danno cardiaco e renale nel paziente con scompenso cardiaco.
Prof. Claudio Ferri
Direttore della Scuola di Medicina Interna
Università degli Studi L’Aquila