LA PRESSIONE MINIMA
di Eligio Piccolo
12 Luglio 2018

Non sono quelli che tutti si aspettano, ma il contrario.
La pressione minima fa più male quando è troppo bassa di quando si avvicina ai 100 millimetri di mercurio dei vecchi sfigmomanometri, rapportabili peraltro con buona approssimazione a quelli dei nuovi digitali. Lo hanno sottolineato a un Congresso Europeo di Cardiologia i ricercatori dello studio Atherosclerosis Risk in Communities (ARIC), ma il sospetto era già presente nei bravi medici che si ricordavano dalla fisiologia che durante la minima, detta anche fase diastolica, ossia quando il cuore ha già finito di pompare e si prepara alla successiva contrazione, in quel momento e quasi solo in quel periodo riceve l’ossigeno per alimentarsi, essendo le coronarie pressoché ostruite dalla compressione contrattile nella sistole. Mentre, come tutti sanno, gli altri organi dal cervello ai piedi acquisiscono il loro flusso ricco di ossigeno e di molto altro durante questa fase, cioè quando la pressione del sangue raggiunge la massima.

Ci fu un tempo nelle alterne vicende della valutazione della pressione alta e dei rimedi per controllarla in cui si era data maggiore importanza alla minima perché, giustamente, quando questa è molto alta favorisce alla lunga il logorio delle arterie, il loro invecchiamento. In seguito però questo problema, che è legato ai lunghi tempi, è stato in un certo senso rimandato e l’attenzione si è polarizzata su quello più urgente, la massima, sia per il suo stretto rapporto con l’ictus che per la migliore valutazione della terapia, il tutto seguito sia dal medico che dal malato.

Ancora oggi tuttavia tra i pazienti più anziani qualcuno ne ricorda la problematica passata e non solo ci esibisce i dati della sua pressione anteponendo il valore della minima a quello della massima, ma ce lo sottolinea con preoccupazione quando i numeri riscontrati si avvicinano o superano i 90 millimetri.

Circa 30 anni fa e durante i dieci anni successivi diversi studi avevano segnalato che la pressione minima negli ipertesi in trattamento si comportava come l’alcool, dove vanno peggio gli astemi e gli smodati bevitori rispetto ai moderati, ossia ammalavano e morivano di cuore più coloro con minima sotto gli 80 o sopra i 90 che gli intermedi. Addirittura, secondo alcuni, il peggio raddoppiava con la minima inferiore ai 70 mm e quadruplicava se inferiore ai 60 mm. Inoltre, una ricerca svedese nel 1994, ai tempi in cui l’elettrocardiogramma era più considerato, aveva segnalato che quando la pressione diastolica scendeva sotto gli 85 mm aumentavano le alterazioni ECG di ischemia o di ingrossamento del cuore. E arrivando ai tempi della più moderna ricerca, qualche anno fa (2012) un gruppo giapponese della Nora Medical University ha pubblicato sulla rivista Hypertension i risultati di uno studio sulla pressione intracoronarica, misurata con tecnica molto raffinata, in pazienti ipertesi, giungendo alla conclusione che il flusso coronarico migliorava abbassando con i farmaci sia la massima che la minima, ma che il vantaggio era maggiore quando quest’ultima era relativamente più alta.

Quel relativamente ci viene oggi chiarito meglio dal nuovo studio ARIC, presentato a Roma contemporaneamente ad uno analogo eseguito nell’Hopital Bichat di Parigi, dove i ricercatori hanno voluto andare più a fondo misurando addirittura la sofferenza del muscolo cardiaco secondo i valori della pressione minima.

Per capire meglio il fine delle due ricerche va premesso che quando il cuore subisce  un’ischemia (dal greco: poco sangue), la quale va da un disturbo lieve e passeggero (angina) e una necrosi (infarto) noi lo possiamo constatare, non solo dalle caratteristiche e dalla durata del dolore e da certi cambiamenti dell’elettrocardiogramma, ma anche dalla presenza nel sangue di sostanze chimiche emesse dal miocardio sofferente. Tra queste la più recente e la più sensibile a quella riduzione dell’ossigeno, ma presente anche a conseguenza di altri stress che possono gravare sul cuore (scompensi, sforzo fisico), è la troponina.

Orbene, nelle migliaia di pazienti analizzati in tali studi questa sostanza aumentava significativamente quando la terapia anti-ipertensiva abbassava la pressione minima sotto i 70 mm e più ancora sotto i sessanta. Dati che indicano una sicura sofferenza del miocardio e che concordano con la constatazione di un contemporaneo aumento delle malattie di cuore e della mortalità rispetto ai pazienti nei quali la pressione diastolica si manteneva tra gli 80 e i 90 millimetri.

Qualcuno potrebbe chiederci se questa troponina è un po’ come l’acido lattico che sprigiona dai muscoli affaticati, ma che nel riposo poi cessa e scompare senza lasciare danni. Purtroppo no, essa ci rivela quasi sempre la perdita di sostanza muscolare e di riparazioni conseguenti, una specie di microscopici infarti. Così come ce lo aveva indicato la clinica con l’aumento delle complicazioni nel tempo.
Ma vi è altro purtroppo, la silenziosità del logorio provocato da questa minima troppo bassa, che distrae sia il medico sia il paziente, impossibilitati a monitorarne con esattezza l’andamento nel tempo e ai quali possiamo solo mandare un caloroso “attenzione!”

Attenzione, si capisce, solo per i pazienti anziani, nei quali la perdita di elasticità dei vasi e di adattamento delle cellule alle variabilità del flusso del sangue, che gli anglofili chiamano “compliance” (dal latino “complacens”), innescano e facilitano quelle sofferenze. Mentre nei giovani tutto ciò non avviene, così come non c’è bisogno del sidenafil per smuovere le arterie inguinali.

Eligio Piccolo
Cardiologo