Un signore sulla sessantina fu colto da un disturbo al petto mentre guidava la sua vettura, accostò sul ciglio della strada, spense il motore… e dopo qualche ora la polizia ne constatò il decesso. La ricostruzione la si legge nella cronaca veneta del giorno dopo, la quale, obbediente al principio del “rasoio di Occam”, secondo il quale la spiegazione più semplice va preferita a quelle complesse, ne fa anche la diagnosi: infarto di cuore. I cardiologi sono sostanzialmente d’accordo, ma preferirebbero definire l’evento un’ischemia, quale in effetti è l’improvvisa mancanza di ossigeno al muscolo cardiaco per la chiusura di una coronaria, osservata spesso in questi casi. Cui seguirebbe un infarto, ossia la necrosi di una sua parte, se un’aritmia inesorabile non ne arrestasse l’evoluzione. La diagnosi giornalistica quindi è corretta al novantanove per cento quando non venga attribuita, com’è successo, a un fanciullo colpito mentre gioca a pallone, dove le cause sono in genere altre.
Ma riprendendo la nostra ischemia, più o meno evoluta nell’infarto, che ritorna periodicamente all’attenzione del pubblico con i personaggi più in vista che l’hanno subita, ne cito qualcuno e vado a memoria: ricordo l’on. Pierluigi Castagnetti colpito durante un giro elettorale in Sicilia, fu subito ricoverato a Catania e soccorso con l’angioplastica, ora sta bene e continua i suoi impegni; Vittorio Sgarbi, che durante un viaggio verso Roma capì subito il disturbo e si fece ricoverare nella più vicina Cardiologia, a Modena, e anche lui ha ripreso dopo gli stent la sua poliedrica attività; più recente il caso del Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, appena tornato a Roma da Parigi, avvertì un dolore fra stomaco e torace, decise di andare subito al PS del Gemelli dove fu riabilitato con l’angioplastica. Tutti casi fortunatamente risolti per il meglio e che ci fanno plaudire all’accortezza dei protagonisti, frutto anche della buona informazione, come quella che da molti anni raccomandiamo in Cuore e Salute, ma anche dell’ottima preparazione delle nostre Cardiologie, dall’Alpe al Lilibeo.
Altri casi purtroppo, come il signore veneto che non ha avuto il tempo di chiamare il soccorso o, nel passato, Leo Longanesi che ci lasciò improvvisamente mentre stava lavorando sulle sue carte, o Papa Luciani colto dall’ischemia nel sonno, e tanti altri nei quali la fibrillazione ventricolare non ha concesso tempo all’intervento, ma anche alcuni in cui l’errore diagnostico o la titubanza nelle decisioni hanno ritardato il ricovero. Sono tutti esempi sui quali, quando la persona colpita è di dominio pubblico, gli psicologi e gli psichiatri, ma anche quelli che, come dicono nel Veneto, sanno sempre una pagina più del libro, si sperticano nel dare giudizi sulla causa dell’effetto. Il giorno dopo però, come nelle migliori dietrologie. Così, il grande giornalista romagnolo, dal passato che gli si raccordava male con il presente, sarebbe stato vittima del suo scetticismo e di una qualche depressione; mentre Papa Luciani, che quando si affacciò al balcone dell’habemus papam pareva dicesse: “perché non mi hanno lasciato a fare il parroco“, sarebbe stato vittima del timore per dover affrontare la gestione di quell’”Impero”; del povero automobilista veneto invece non sappiamo nulla, ma forse anche lui aveva il suo piccolo dramma. In effetti, secondo le statistiche che calcolano in 150 mila gli infarti in Italia ogni anno, circa il 20 per cento raggiungono prima l’empireo dell’ospedale, vittime dell’ischemia e dell’aritmia conseguente.
Alcuni studi riassunti dall’Harvard Medical School di Boston (Circulation 2017) hanno suddiviso i casi di infarto in tipo 1, quelli di prima insorgenza e senza altre complicazioni, e in tipo 2 quelli che ne hanno già avuto uno o sono gravati da altri problemi cardiovascolari, osservando che la prognosi era tre volte peggiore nei secondi. Una conclusione dalla logica lapalissiana, data la differente gravità clinica nei due gruppi. Meno logico invece è il destino cinico e baro in coloro che vengono allertati dall’ischemia per la prima volta, magari non così anziani da avere le arterie tanto logorate e senza quei fattori di rischio che le facilitano, com’è capitato recentemente al telecronista Leardini a soli 38 anni e in buona salute.
Ai medici non mancano certo le ipotesi per interpretarli, che poi sono sempre la base per raggiungere la verità, e già ne sono state formulate almeno due: l’intervento delle catecolamine, il cui capostipite è l’adrenalina, capaci di innescare l’aritmia fatale; quelle stesse sostanze che i giovani atleti assumono per migliorare le loro prestazioni, e che talvolta li penalizzano.
La seconda ipotesi è l’azione dell’amigdala, la misteriosa ghiandola cerebrale, anzi due, una per ciascun emisfero, che intervengono in certe attività dell’organismo e anche in alcune reazioni della nostra psiche, come la paura e lo stress in genere. E qui ancora l’Harvard Medical School di Boston (Lancet 2017) ci annuncia una sua effettiva implicazione, poiché si è documentato che una maggiore attività dell’amigdala induce più frequenti malattie cardiovascolari.
Dai tempi delle ricerche di Hans Selye sullo stress, nome da lui stesso coniato, abbiamo imparato molto circa le reazioni nervose e ormonali che questo psicodramma determina nel nostro corpo, sia con effetti fisiologici benefici che con altri patologici nocivi. Successivamente si è pure osservato che lesioni distruttive delle amigdale possono generare comportamenti esterni rischiosi nei pazienti colpiti. Ricordiamo il caso di quella ragazza che si avvicinava ai leoni come fossero gatti.
E’ quindi possibile che una iperattività di tale struttura provochi, al contrario della loro distruzione, uno sconvolgimento interno responsabile delle malattie di cuore. Non abbiamo ancora dati precisi in proposito, ossia sul perché alcune ischemie diano tempo alla diagnosi e alla terapia per risolverle, mentre altre mettano quasi subito in attività la Parca che recide il filo della vita. Per ora le conoscenze ci informano di un’unica certezza, che copre molti ma non tutti i casi, la placca, quell’escrescenza di grasso nell’interno delle coronarie che, rompendosi sotto sforzo o per un’infezione le occlude e dà inizio al percorso verso l’infarto.
Ippolito Pindemonte nel ‘700 si raccomandava agli Dei affinché la malinconia gli fosse “Ninfa gentile” e aggiugeva “la vita mia consacro a te”.
Noi, ancora incapaci di capire quale malinconia inneschi l’ischemia che si associa alla mala sorte e quale invece ci gratifichi, continuiamo il nostro impegno e invochiamo quella gentilezza che tanto ci manca.
Eligio Piccolo
Cardiologo