IL SALE, DAL MARE AL SALARINO
di Eligio Piccolo
12 Luglio 2018

Gli antichi, quelli naturalmente più vicini a noi, lo estraevano dal mare e percorrendo la Consolare Salaria rifornivano Roma del prezioso cloruro di sodio, il sale dei cibi. Che allora era maggiormante indispensabile per correggere la sua scarsità negli alimenti vegetali e per sostituire quanto il viandante o il soldato perdevano con il sudore nelle lunghe marce.

Allora non si conoscevano le sue azioni negative sulla pressione e sulle malattie cardiovascolari, di cui tante volte si è scritto in tante pubblicazioni. Tutti erano più sereni in quella “beata gnoransa”, come diceva un’anziana paziente veneta, trapassata ma contenta del suo appetito, del  diabete e di non pensare alle magagne conseguenti. Anche perché la minore sopravvivenza e lo stile di vita più sano non davano allora grandi opportunità alla comparsa dell’ictus (coccolone per chi non ha studiato il latino) o dell’infarto. Tranne i rari casi, come l’imperatore Adriano, che le cronache del tempo ci hanno tramandato attraverso la descrizione dei sintomi. Oggi, della necessità di contenere il sale ne parlano tutti, anche i bollettini parrocchiali, e la resistenza opposta dagli incalliti amanti del saporito ha dovuto arrendersi all’evidenza. Forse non tanto quella dei suoi danni nelle arterie, che sono subdoli e non possono essere evidenziati con uno “smartphone”, ma certamente quella dei rischi dovuti alla pressione alta, che tutti possono controllare con i moderni digitali.

Non è mia intenzione ritornarci su e rielencare le conseguenze patologiche favorite in tanti modi dal sale, ben documentate peraltro dagli studi epidemiologici e ribadite fino alla noia. Piuttosto ci sembra utile ritornare sulle abitudini alimentari e sulle quantita del cloruro di sodio nei cibi che scegliamo. I quali continuano ad essere oggetto di molte ricerche, ma anche di disposizioni politiche sulla confezione dei cibi in fabbrica o nei ristoranti.

Quando gli esperti cominciarono a sollevare il problema, oltre mezzo secolo fa, si vide che in molte popolazioni la quantità di sale ingerita nelle 24 ore era intorno ai 6-10 grammi. I più golosi ne mangiavano anche il doppio, ed erano in particolare i portoghesi e alcune comunità asiatiche, in perfetta concordanza purtroppo con il maggior numero di coccoloni. Si corse quindi ai ripari e molti medici consigliarono, sulla base si capisce di studi adeguati, di non superare i 2-3 grammi, concedendo però una qualche indulgenza ai giovani sportivi e a quelli che sudano molto, anche nel dare la mano.

I risultati si sono subito evidenziati e hanno convinto perfino i più riottosi. Specie da quando sia il medico che il paziente hanno visto con i propri occhi che la semplice scipitezza o l’uso di diuretici per espellere l’eccesso di sodio erano in grado di ridurre in certi casi tanto la pressione quanto gli altri farmaci per tenerla normale.

Purtroppo, anche dopo tanta propaganda ed educazione sanitaria, rimane attiva un grossa palla al piede: il 71% del sale che entra nella nostra alimentazione e quindi nel corpo è quello che riceviamo fuori casa, sia dalle confezioni industriali che dai ristoranti. Mentre il sale presente negli alimenti per loro natura è solo il 14%. Risulta anche minoritaria, secondo le ultime indagini americane, la quantità usata nella cucina di casa  (6%) e quella aggiunta in tavola con il salarino (1 a 5 %).

La soluzione quindi secondo gli esperti, ma anche secondo l’homo sapiens primigenio, sarebbe quella di un più attento controllo sui criteri usati dall’industria, che vede nel sodio il migliore conservante, e sui ristoratori, che compensano con il sale la perdita della buona cucina con altre spezie e cotture, mentre affidano al sale anche un maggior uso di bevande a pagamento. A pensar male si fa peccato, ma come in questo caso ci si indovina.

Eligio Piccolo
Cardiologo