Con il termine di ictus cerebri o stroke nella terminologia anglosassone, ci si riferisce ad un evento acuto vascolare cerebrale caratterizzato di solito da improvvisa perdita di coscienza ed emiplegia (paralisi di metà del corpo). Rappresenta una temibile manifestazione dell’aterosclerosi – la malattia che causa il danneggiamento dei vasi sanguigni – e dell’ipertensione arteriosa.
Sebbene l’ictus sia la seconda causa di morte nel mondo, un gran numero di pazienti sopravvive portando su di sé gli esiti di questo evento drammatico ed invalidante. Spesso il recupero delle funzioni motorie e cerebrali è solo parziale, fatto ancora più grave se si pensa che una persona su quattro, colpita da ictus, ha meno di 65 anni.
Molti ricercatori stanno ora concentrando i propri sforzi su un nuovo approccio alla cura di questa grave malattia che non sia circoscritto soltanto a limitare i danni al cervello nella fase acuta, ma tenti terapie in grado di produrre effetti durevoli una volta avviate a distanza di giorni o mesi dalla comparsa di ictus cerebri. Questi nuovi approcci terapeutici includono l’utilizzo di cellule staminali, fattori di crescita, stimolazione elettromagnetica e programmi intensivi di fisioterapia, incluso quella controllata grazie a robot.

Sull’autorevole rivista New England Journal of Medicine è stato pubblicato uno studio (Lo et al.) che ha messo a confronto tre tipi di trattamento su pazienti con esiti motori gravemente invalidanti: la terapia robotica, che consisteva in movimenti ripetitivi e intensivi della porzione prossimale e distale del braccio; una terapia ad essa sovrapponibile per forma ed intensità, ma condotta con le tradizionali tecniche riabilitative, e la terapia convenzionale, che poteva includere varie tipologie di terapia occupazionale e fisica. L’ipotesi dello studio era verificare a 12 settimane un significativo miglioramento nei pazienti trattati con la terapia robotica, misurato con una variazione di punteggio nella scala di valutazione di Fugl-Meyer. I pazienti che ricevevano i due trattamenti intensivi – robotico e non – effettuavano tre sedute settimanali di un’ora circa ciascuna. Assai variabile era in tutti e tre i gruppi la distanza dall’insorgenza dell’ictus (6 mesi -24 anni), le patologie coesistenti e il trattamento farmacologico in corso.

In realtà lo studio ha fallito nel dimostrare una superiorità della terapia robotica, primo obiettivo dello studio stesso, ma i due trattamenti intensivi, prolungati fino a 24 mesi, hanno dimostrato che la funzione motoria può essere migliorata nei pazienti con esiti di stroke e severe disabilità presenti da lungo periodo. I pazienti inclusi nello studio presentavano gravi deficit, nel 73% dei casi già seguivano una qualche forma di riabilitazione ed erano molto motivati al miglioramento, al punto da accettare 36 visite in un laboratorio di ricerca in un periodo di tre mesi, fatto davvero non semplice in soggetti con grave invalidità.
Il training motorio intensivo, che ha dato risultati incoraggianti, potrà essere associato agli altri trattamenti che hanno per obiettivo la “riparazione” del tessuto cerebrale, come l’utilizzo di fattori di crescita o di stimolatori. Test anatomici e fisiologici saranno di supporto nell’identificazione dei pazienti con un substrato biologico cerebrale suscettibile a migliorare in risposta alla terapia.
Lo studio di Lo et al. rafforza la teoria che il cervello di un individuo adulto mantiene una certa “plasticità”, rilevante dal punto di vista clinico, anche nella fase cronica post ictus.
Lo AC, Guarino PD, Richards LG, et al. Robotic assisted therapy for long-term upper-limb impairment after stroke. N Engl J Med 2010; 362: 1772-83 Brain Repair After Stroke. Steven C. Cramer, M.D. N Engl J Med 2010; 362: 1827-29
Antonella Labellarte
Cardiologa
Ospedale S. Eugenio, Roma