Che fine hanno fatto gli STEMI?
di Eloisa Arbustini, Giancarlo Piovaccari, Filippo Stazi, Francesco Prati
08 Aprile 2020

Parallelamente all’inarrestabile avanzata del COVID-19 in tutto il mondo si è assistito ad una drastica riduzione degli STEMI.  In Spagna come in Lombardia, in Canada come in Inghilterra e negli Stati Uniti tale calo arriva anche al 70-80% rispetto all’epoca pre-pandemia.

Il nostro paese purtroppo è stato il primo in Europa a vivere l’incubo dell’infezione virale, che ha messo in ginocchio la Lombardia. I cardiologi interventisti che abbiamo intervistato nel territorio nazionale dichiarano una sorprendente riduzione dei ricoveri per infarto che in media supera il 50% ed arriva ad oltre il 60% per gli STEMI.

Nessuno è in grado per ora di spiegare il fenomeno. L’ipotesi che il virus sia in qualche modo protettivo, stabilizzando la placca, non ha plausibili presupposti biologici.

Abbiamo intervistato tre cardiologi per conoscere le dimensioni del fenomeno e comprenderne le ragioni.

Calano le diagnosi di infarto. Si riducono anche le procedure di angioplastica nelle sindromi coronariche acute? 

Prof Francesco Prati  (Osp. S Giovanni, Roma). Si. Dal confronto tra le procedure di Marzo dell’anno 2019 e l’anno 2020 effettuate presso la cardiologia del S Giovanni, emerge un calo del 55% per le procedure di PTCA primaria e del 33% relativamente agli interventi riservati al NSTEMI. Nei primi 15 giorni dalla messa in atto delle disposizioni sull’isolamento le emergenze cardiologiche quasi non si vedevano. Solo nell’ultima settimana il trend è cambiato, perché come centro non COVID, il  S Giovanni assorbe molte emergenze da altre strutture.

Immagino che anche a Rimini si sia osservata una riduzione delle diagnosi di infarto.

Prof Giancarlo Piovaccari (Osp Infermi Rimini). Gli infarti NSTEMI si sono ridotti addirittura dell’80%. Non è un caso che sia deciso di chiudere momentaneamente il reparto di cardiologia di Riccione, che è compresa nell’area vasta di Rimini.

Quali sono le cause?

G Piovaccari. Penso che l’ipotesi più credibile sia che i pazienti, terrorizzati dall’idea di recarsi ad un pronto soccorso per evitare il contagio, non giungano in ospedale e, nei casi più sfortunati,  muoiano a casa. Altri pazienti invece possono giungere  all’osservazione ospedaliera tardivamente, al di fuori della tempistica necessaria per effettuare un’angioplastica primaria.

Eppure, secondo un lavoro pubblicato dal New Engl J Med nel 2018 e ripreso dal prof De Caterina a Conoscere e Curare il Cuore dello scorso anno, nel corso dell’influenza il rischio d’infarto aumenta di quasi sette volte. Che nesso c’è tra infezione COVID e infarto?

Prof. Arbustini (Pol. San Matteo, Pavia)  Non sappiamo esattamente se il COVID-19 possa aumentare il rischio di infarto analogamente al virus influenzale cui siamo abituati. Al momento comunque il problema sembra opposto: di infarti del miocardio se ne vedono pochi. Non è ancora così chiaro come agisca il virus. È possibile che il rilascio di citochine infiammatorie possa agire non solo a livello polmonare ma anche in altri distretti, tra cui il cuore. Le biopsie ci aiuteranno a comprendere.

E’ fuori luogo pensare a soluzioni più ottimistiche per giustificare il calo di infarti?

F Prati. Ci sono dati sul ruolo dell’inquinamento nel favorire l’infarto. E’ possibile che l’inquinamento atmosferico secondario al crollo del traffico rappresenti un elemento protettivo per l’insorgenza di infarto. E poi ancora  non possiamo escludere che i ritmi di vita più rilassati imposti dalle restrizioni sociali con la conseguente riduzione degli stimoli stressanti, l’aumento delle ore di sonno, l’aumentata aderenza alla terapia farmacologica consentita dalla permanenza prolungata in casa rappresentino conseguenze favorevoli di questa evenienza drammatica e possano esercitare un ruolo nella riduzione dell’infarto. Rimango però convinto che sia il timore del contagio l’elemento di fondo che ha ridotto così tanto le diagnosi di infarto.

Il Dr Bueno, di Madrid, intervistato dall’ESC recentemente, si soffermava su questo aspetto. A Madrid, che sta vivendo un momento drammatico, più o meno come Bergamo, la diagnosi di infarto è una rarità. Per il timore di contrarre la malattia la gente rimane a casa, anche quando accusa i sintomi dell’infarto, con conseguenze molto negative.

Da una recente intervista rilasciata dalla Dr.sa Chieffo del Osp. S Raffaele, Milano,  e disponibile sul sito dell’ESC, emerge un dato interessante. Su 39 soggetti con sindrome coronarica acuta (prevalentemente STEMI), in circa il 60% dei casi non era rilevabile una lesione culprit, responsabile dell’infarto. Inoltre veniva spesso osservata una bassa frazione d’eiezione. E possibile ipotizzare una diversa fisiopatologia dello STEMI in presenza di COVID?

Arbustini. Servono dati ed evidenze; tuttavia non si può escludere che si possano verificare fenomeni di necrosi delle cellule cardiache indotte da citochine miocardio-tossiche rilasciate in elevata quantità dalle cellule infiammatorie, attivate dalla necessità di combattere la presenza del virus. Si parla infatti di “acute cardiac injury” ovvero di danno miocitario acuto” svelato da elevati livelli di marcatori di danno cellulare miocardico (in particolare le troponine) in oltre il 30% dei pazienti che vengono ricoverati in condizioni critiche nelle terapie intensive.

G Piovaccari. I quadri angiografici coronarici non sono stati dissimili dai periodi precedenti.  Curiosamente non abbiamo indivuato TAKO-TSUBO (da noi mediamente 1-2/settimana) e Dissezioni Coronariche Spontanee (ne registriamo 2-3/mese). La mancanza di queste 2 Sindromi potrebbe essere coerente con il calo generale degli Infarti: meno stress nella vita quotidiana (della fase iniziale del lockdown!).

Cosa ci dobbiamo aspettare quando l’emergenza finirà?

Piovaccari . Gli infarti si riducono e non solo in Italia. Negli USA ad esempio il calo è imponente. Il miglioramento della sopravvivenza cardiologica cui abbiamo assistito nel corso degli anni è in gran parte legato alla ridotta estensione del danno infartuale, ottenuto dalla terapia riperfusiva precoce. In epoca COVID stiamo forse riportando indietro l’orologio della cardiologia ai tempi in cui vedevamo scompensi intrattabili e, nei casi peggiori, rotture di cuore. Siamo tornati indietro di 15-20 anni.  Nei prossimi mesi rischiamo di intercettare pazienti con gli esiti di infarti devastanti cui eravamo abituati in epoca pre-trombolisi.

Avete casi aneddotici?

F Prati. Più di uno. Due rotture di cuore nell’arco di una settimana si notano. In tutti e due i casi i pazienti si sono presentati con un lungo tempo precoronarico. La PTCA è stata efficace ma il flusso TIMI finale non era soddisfacente, ad indicare un danno microcircolatorio. A distanza di 4 e 5 giorni dalla riperfusione si è verificata la rottura di cuore. Come dire: in ospedale ci si va solo quando la situazione diventa drammatica.

E Arbustini. Il  prof  Pelenghi, cardiochirurgo della ns struttura (S Matteo, Pavia)  ha operato in urgenza due complicanze infartuali. Nel  primo  caso si era verificata una rotture di cuore su base infartuale con tamponamento in atto, nel secondo  ed una insufficienza mitralica massiva da rottura di papillare.  Va detto che entrambi i pazienti sono giunti al pronto soccorso con un considerevole ritardo dall’inizio dei sintomi.

E gli infarti NSTEMI. Si riducono anche loro?

G Piovaccari Soprattutto gli infarti NSTEMI..Il quadro clinico è meno imponente ed è proprio per questo che gli NSTEMI si vedono meno frequentemente degli ST in alto. C’è poi il problema degli infarti NSTEMI secondari a polmonite o insufficienza respiratoria. E’ ragionevole essere meno aggressivi e ridurre le procedure di rivascolarizzazione in questo contesto clinico. Questo nell’obbiettivo di non diffondere il contagio da coronavirus.

Ha senso ricorrere alla trombolisi sistemica al posto della PTCA nella terapia dello STEMI del paziente con possibile infezione COVID?

G Piovaccari. C’è chi lo ha proposto ma non mi sembra giusto. La trombolisi andrebbe incoraggiata qualora ci fossero ritardi nell’attuazione del programma di PTCA primaria per i problemi logistico-organizzativi, dovuti all’infezione COVID, come la difficolta nel reperire un’ambulanza in tempi utili.  Anche in epoca COVID dobbiamo lasciare spazio alla cura ottimale dell’infarto così come delle altre patologie gravi. E’ bene poi, se possibile, trattare i pazienti COVID o sospetti COVID  in una sala di emodinamica dedicata.

L’impiego del tampone è una soluzione accettabile per  discriminare rapidamente i pazienti COVID?  La gestione ottimale dell’emergenza COVID si può avvalere di test rapidi?

F Prati Si, l’effettuazione del tampone rimane al momento uno strumento diagnostico importante. I tempi della risposta non sono però così rapidi per ottimizzare la gestione dei pazienti. Inoltre il tasso dei falsi negativi della diagnosi mediante tampone non è trascurabile. Confidiamo molto nell’impiego precoce di test rapidi finalizzati alla  individuazione delle IgM e IgG prodotte dall’organismo contro delle proteine del COVID-19, per comprendere se si sia contratto il virus e ragionare sulla fase della malattia.  Rimane in questa fase da capire il livello di attendibilità del test.

 

References

Muscente F, De Caterina R. Causal relationship between Influenza infection and risk of acute myocardial infarction: Pathophysiological hypothesis and clinical implications. Eur Heart Journal Supplement 2020. In press

Kwong JC, Schwartz KL, Campitelli MA, et al. Acute Myocardial Infarction after

Laboratory-Confirmed Influenza Infection. N Engl J Med 2018; 378:345-353

Versaci F , Biondi-Zoccai G, Dei Giudici A. Climate changes and ST-elevation myocardial infarction treated with primary percutaneous coronary angioplasty. Int J Cardiol 2019. In press

ESC Interview to Dr Bueno. https://www.youtube.com/embed/tM8AB-CfyOk?

ESC Interview to Dr Chieffo. https://www.youtube.com/embed/WYx4xOn97aE?