Cardiopatia ischemica e fibrillazione atriale oltre i 12 mesi: siamo veramente pronti alla singola terapia anticoagulante?
di Laura Gatto
21 Dicembre 2020

Sicuramente uno dei temi più dibattuti dalla cardiologia moderna è la corretta gestione della terapia antitrombotica nel paziente affetto contemporaneamente da cardiopatia ischemica e da fibrillazione atriale: se da una lato la terapia antiaggregante è fondamentale per ridurre gli eventi ischemici nei pazienti con coronaropatia, soprattutto se sottoposti ad impianto di stent, dall’altro la terapia anticoagulante è sicuramente più efficace nella prevenzione del tromboembolismo legato alla fibrillazione atriale. L’altra faccia della medaglia è rappresentata dal fatto che il trattamento combinato con farmaci a diversa azione antitrombotica aumenta esponenzialmente il rischio emorragico contribuendo a peggiorare l’outcome di questa categoria di pazienti.

L’introduzione di nuovi farmaci ad azione antiaggregante ed anticoagulante ha inoltre enormemente ampliato le combinazioni di strategie antitrombotiche attuabili e nel corso degli ultimi anni diversi studi clinici si sono focalizzati sulla gestione della terapia antitrombotica soprattutto nei primi 12 mesi dopo una Sindrome Coronarica Acuta (SCA) o dopo il posizionamento di uno stent coronarico. In seguito a queste evidenze nel corso dell’ultimo Congresso della Società Europea di Cardiologia sono state rilasciate le nuove linee guida sul trattamento della fibrillazione atriale1 che hanno cercato di dare delle indicazioni chiare e precise in merito a tale argomento: se da una parte la raccomandazione di ridurre al massimo ad un mese la durata della triplice terapia antitrombotica dopo una SCA o dopo un’angioplastica coronarica con stent di ultima generazione poggia su dati robusti forniti da grandi trial clinici randomizzati e confermati dai registri di real word, dall’altra la raccomandazione di continuare con il solo anticoagulante dopo il dodicesimo mese appare sicuramente meno solida. Infatti a sostegno di questa raccomandazione le linee guida citano un unico  studio, l’AFIRE (Atrial Fibrillation and Ischemic Events with Rivaroxaban in Patients with Stable Coronary Artery Disease)  pubblicato lo scorso anno sul New England Journal of Medicine2.

Si tratta di un trial multicentrico che ha arruolato 2236 pazienti con cardiopatia ischemica stabile e fibrillazione atriale, randomizzati al trattamento con singola terapia anticoagulante con rivaroxaban oppure ad una terapia di combinazione di rivaroxaban associato ad un antiaggregante piastrinico (aspirina o clopidogrel, scelta lasciata a discrezione dell’operatore). Lo studio ha dimostrato che la singola terapia con rivaroxaban raggiungeva, rispetto alla terapia combinata,  l’endpoint primario di efficacia, un endpoint di non inferiorità e definito come un composito di ictus, embolismo sistemico, infarto miocardico, morte per tutte le cause ed angina instabile richiedente procedura di rivascolarizzazione (hazard ratio, 0.72; 95% intervallo di confidenza [CI], 0.55- 0.95; P<0.001 per la non inferiorità). Inoltre, il rivaroxaban da solo risultava superiore alla terapia di combinazione per quanto riguardava l’end-point primario di sicurezza che valutava le emorragie maggiori definite secondo la classificazione IST (hazard ratio, 0.59; 95% CI, 0.39-0.89; P = 0.01 per la superiorità).  Per di più la terapia anticoagulante singola si dimostrava efficace nel ridurre tutte le singole componenti dell’end-point primario, eccezion fatta per l’infarto miocardico, ed addirittura lo studio è stato concluso precocemente per un netto beneficio sulla mortalità. Nonostante i chiari vantaggi a favore della singola terapia anticoagulante con rivaroxaban, una lettura più attenta dello studio impone alcune riflessioni e fa insorgere qualche dubbio. Innanzitutto l’esclusione dei pazienti con storia di pregressa trombosi di stent e poi il disegno del trial, che non è stato condotto in cieco, ma in “open label”; inoltre lo studio ha visto un’alta percentuale di pazienti persi al follow-up ed ha coinvolto soltanto centri Giapponesi, per tale motivo i dosaggi di rivaroxaban impiegati sono stati di 15 mg e di 10 mg (per i soggetti con una clearance della creatinina < 50 ml/min), quindi dosaggi più bassi rispetto a quelli normalmente impiegati in USA ed in Europa. A questo punto, quindi, credo sia lecito domandarsi se i risultati ottenuti in questo studio dal rivaroxaban, possano poi essere confermati ai dosaggi comunemente impiegati e possano essere estesi anche agli altri anticogulanti diretti.

La revisione della letteratura è povera di evidenze che trattino della corretta gestione della terapia antitrombotica oltre il dodicesimo mese. Solo un altro studio ha affrontato in modo specifico questo argomento, l’OAC-ALONE (Optimizing Antithrombotic Care in Patients With Atrial Fibrillation and Coronary Stent) study3, pubblicato nel 2019 su Circulation. In questo trial, che le linee guida non citano, la singola terapia anticogulante rispetto alla terapia combinata (anticoagulante e farmaco antipiastrinico), non ha raggiunto la non inferiorità  per l’enpoint primario (composito di ictus, embolismo sistemico, infarto miocardico e mortalità per tutte le cause), raggiungendola invece per l’endpoint secondario (composito delle componenti dell’endpoint primario e delle emorragie maggiori). Tuttavia questo studio presenta ancora più limiti del precedente: innanzitutto è stato concluso precocemente, dopo l’arruolamento dei primi 700 pazienti a fronte dei 2000 previsti; inoltre l’anticogulante più impiegato è stato il warfarin (in oltre il 75% della popolazione) e soltanto il 50% dei soggetti hanno presentato valori di INR a target durante lo svolgimento del trial.

Pertanto, nonostante le linee guida raccomandino nel paziente con fibrillazione atriale e cardiopatia ischemica la continuazione con il solo anticoagulante dopo il dodicesimo mese, tale approccio appare attualmente lontano dall’essere supportato da robuste evidenze e un’alta percentuale di pazienti continua ad essere trattata, anche dopo il primo anno, con una terapia di combinazione. Questo probabilmente accade perchè nella pratica clinica assistiamo ad una sorta di “selezione naturale” del paziente che può tollerare un trattamento antitrombotico più aggressivo: i grandi trial ed i grandi registri ci hanno infatti insegnato che gli eventi emorragici tendono a verificarsi soprattutto nei primi tre mesi, al contrario nel paziente ad elevato rischio aterotrombotico residuo gli eventi ischemici tendono a ricorrere oltre il primo anno. In assenza quindi di nuovi studi, più che su una medicina basata sull’evidenza, dobbiamo affidarci ad una medicina basata sul paziente in cui la scelta della strategia terapeutica da adottare si fonda sull’attenta valutazione del rischio ischemico e del rischio emorragico del soggetto che abbiamo di fronte.

 

Bibliografia

  1. Gerhard HindricksTatjana PotparaNikolaos Dagres, et al. 2020 ESC Guidelines for the diagnosis and management of atrial fibrillation developed in collaboration with the European Association of Cardio-Thoracic Surgery (EACTS). Eur Heart J 2020; doi: 10.1093/eurheartj/ehaa612.
  2. Yasuda S, Kaikita K, Akao M, et al. Antithrombotic Therapy for Atrial Fibrillation with Stable Coronary Disease. N Engl J Med. 2019;381:1103-1113.
  3. Matsumura-Nakano Y, Shizuta S, Komasa A, et al. OAC-ALONE Study Open-Label Randomized Trial Comparing Oral Anticoagulation With and Without Single Antiplatelet Therapy in Patients With Atrial Fibrillation and Stable Coronary Artery Disease Beyond 1 Year After Coronary Stent Implantation. 2019;139:604-616.