La digossina è usata ed amata ancora molto da cardiologi, internisti e geriatri.
Il suo uso è, in particolare, certo ridotto rispetto al passato, ma sia la pratica clinica sia le Linee Guida riservano ancora a questa antica molecola uno spazio preciso, ad esempio nella fibrillazione atriale, con particolare riferimento al controllo della frequenza cardiaca.
Orbene, dai tempi del vecchio studio Digitalis Intervention Drug (DIG) ad oggi, parlar male della digitale sembra essere diventato un po’ come sparare sulla Croce Rossa: vile e troppo facile.
L’uso della digossina, infatti, sia pure con molti dubbi relati all’uso – possibile nella pratica clinica – di dosaggi eccessivi, risultando una ridotta digossinemia non caratterizzata da incremento della mortalità anche nello stesso studio DIG, sarebbe correlabile certamente ad un miglioramento dei sintomi e ad una riduzione della frequenza cardiaca, ma anche ad un effetto negativo sulla sopravvivenza. Ciò è stato confermato anche nello studio Atrial Fibrillation Follow-Up Investigation of Rhythm Management (AFFIRM), con una certa contestazione accesa però sia sulle differenze esistenti, ancora una volta, su come la digossina veniva utilizzata, sia sul tipo di modello statistico utilizzato per valutarne gli effetti sulla mortalità e, infine, nello studio – retrospettivamente analizzato – The Retrospective Evaluation and Assessment of Therapies in AF (TREAT – AF).
Per i suddetti motivi, appare di particolare interesse l’ennesima valutazione post hoc di questa problematica avvincente, “perché no” anche per il suo valore storico, oltre che per l’interesse che il clinico ha ad avere certezze nello scegliere la migliore strategia di cura per i propri pazienti fibrillanti. Detta valutazione, in particolare, è stata condotta usando i pazienti reclutati nello sub-studio del Losartan Intervention For Endpoint Reduction in hypertension (LIFE); che erano fibrillanti all’ingresso del trial (n=134) o lo sono diventati nel corso del follow up (n=803), per un totale finale pari a di 445 donne e 497 uomini valutati (età media 70 ± 6 anni). Ebbene, durante 4.7 ± 1.1 anni di follow up ci sono state 167 morti tra questi pazienti (17.8%), mentre 372 (39.7%) erano quelli trattati con digossina. All’analisi univariata secondo Cox, l’uso di digossina incrementava il rischio di morte del 61% (P = 0.003). Pur tuttavia, dopo aver aggiustato per una miriade di variabili, l’effetto negativo della digossina sulla sopravvivenza dei pazienti non era più rilevabile (hazard ratio per mortalità 1.04, intervallo di confidenza al 95% 0.73–1.48, P = 0.839). Di particolare rilievo, l’effetto negativo della digossina sembrava forse stemperato dalla presenza di scompenso cardiaco all’inizio dello studio, con l’immenso limite però della numerosità di tali pazienti, che erano appena 45. In accordo con ciò, sempre all’analisi di Cox l’effetto della digossina non risultava variare con le differenze di genere, nel trattamento antipertensivo, in base alla storia di scompenso cardiaco oppure di cardiopatia ischemica e, infine, con la potassiemia durante il trattamento.
Pertanto, con tutti i limiti metodologici che sono facilmente rilevabili da parte del clinico esperto, nel paziente iperteso con ipertrofia ventricolare sinistra reclutato nello studio LIFE, fibrillante ab initio oppure divenuto tale nel corso del follow up, l’uso della digossina non sembra essere stato correlato ad un incremento della mortalità.
Forse, pertanto, dobbiamo solo iniziare a capire che la digossina deve essere utilizzata meglio, probabilmente a dosaggi davvero molto bassi, tanto nel paziente iperteso quanto in quello normoteso.
Pur con spazi sempre più limitati, pertanto, la digossina sembra ancora voler resistere strenuamente al suo pensionamento
Fonti:
Okin PM et al. Digoxin use and risk of mortality in hypertensive patients with atrial fibrillation. J. Hypertens 2015, 33, 7:1480–1486
Prof. Claudio Ferri
Direttore della Scuola di Medicina Interna
Università degli Studi L’Aquila