Per la cultura occidentale il tema della morte ha sempre rappresentato un punto sul quale rivolgere le speculazioni filosofiche. Secondo Paltone, massimo tra i pensatori dell’antica Grecia, il filosofeggiare ci prepara nel migliore dei modi a morire e la morte permette all’anima di svincolarsi dai legami che il mondo sensibile le ha imposto relegandola nel corpo. Al trapasso si attribuisce così il significato di passaggio da un mondo materiale falsato dalle percezioni ingannevoli a un mondo “più vero”, dove l’anima riflette e osserva direttamente le idee. La filosofia platonica è una delle prime dottrine occidentali che pone, come credo, la fede nell’immortalità dell’anima, base principale per lo sviluppo univoco di molte confessioni afferenti al nostro bacino culturale.
Nel panorama mondiale delle religioni, invece, la morte è percepita in modi molto diversi l’uno dall’altro. Nel buddismo zen si parla di rinascita e non di reincarnazione, come in altre religioni ad esempio quella induista. Al termine del ciclo morte/rinascite si raggiunge il nirvana, stato della liberazione dall’odio, dalla brama e dall’illusione. Nel musulmanesimo l’aldilà è premiante soltanto se ci si è comportati bene in vita seguendo i precetti di Allah. Nel giudaismo non esiste differenza tra la dimensione terrena e quella oltre la morte perché anche l’oltretomba è considerata parte della vita. L’anima lascia il corpo, ma si dirige verso l’alto alla ricerca della ricongiunzione con la sorgente primigenia. Se in vita il comportamento del defunto non è stato del tutto corretto e ha subito delle ferite, la sua anima dovrà essere mondata e risanata prima di riacquisire lo stato di fusione totale con la fonte primaria. Nel Cristianesimo, e nel cattolicesimo in particolare, sappiamo che la vita oltre la morte prevede tre dimensioni in attesa del giudizio universale e della resurrezione dei corpi: inferno, purgatorio e paradiso. Anche qui è applicato un principio meritocratico: più si è stati buoni, rispettando i precetti e i comandamenti, e più vicino all’essenza divina ci si potrà piazzare. La morte, seguendo i testi sacri giudaico cristiani, non era nel disegno di Dio: fu la conseguenza del peccato originale commesso da Adamo ed Eva. Con l’avvento di Gesù, Dio recupera il rapporto con i suoi “figli” e non li abbandona più tra le braccia della morte; con la resurrezione di Cristo, invero, secondo la teologia cristiana, è stata definitivamente sconfitta.
Seguendo il pensiero razionale, però, tutte queste idee religiose sulla dimensione oltre la vita non sono altro che delle proiezioni psichiche, meccanismi psicologici egodifensivi che aiutano ad esorcizzare l’angoscia dovuta alla consapevolezza del termine dell’esistenza e dell’ignoto che ci attende. È Epicuro a tranquillizzarci suggerendoci, nella sua famosa Lettera a Meneceo, che avere timore della morte è sciocco perché: “la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo più noi.”. Nella cultura latina gli fa eco Lucrezio Caro: “Nulla è dunque la morte per noi, e per niente ci riguarda.” Il sornione e saggio Orazio Flacco ci regala il famosissimo carpe diem quale riparo dall’angoscia della coscienza della nostra finitezza, dall’irrefrenabile fuga del tempo, dalla brevità della vita e dalla certezza della morte: “Cogli l’attimo, confidando il meno possibile nel domani”. Anche Seneca con la sua opera De brevitate vitae ci ammonisce di non affidare nulla al futuro e di vivere ogni singolo giorno come se fosse l’ultimo, specificando che nella vita non è il tempo a scarseggiare, ma è il fatto che ne sprechiamo tanto a costituire la cosa più grave. Come sempre, e come ben possiamo capire studiando i nostri classici “europei”, il detto statunitense live in the present, tanto di moda oggi, non ha alcuna originalità.
La scienza sta studiando la possibilità di raggiungere la vita eterna. Gli scienziati sono già giunti a quadruplicare la vita delle cavie di laboratorio. Addirittura, i ricercatori del Dana-Faber Cancer Institute della Harvard medical School, capeggiati da Ronald DePinho sono riusciti a trasformare topi di laboratorio anziani e deboli, in animali sani, rigenerando i loro corpi invecchiati. Gli studiosi di Harvard si sono focalizzati sul processo detto “accorciamento dei telomeri”. La maggior parte delle cellule nel corpo contiene 23 paia di cromosomi, portatori del nostro DNA. Alle estremità di ogni cromosoma c’è un cappuccio protettivo chiamato telomero. A ogni divisione cellulare i telomeri si accorciano, fino a smettere di funzionare, portando così la cellula alla morte, o ad uno stato di sospensione chiamato “senescenza”. Questo processo è il responsabile della gran parte dei danni da logorio collegati all’invecchiamento e s’avvia in concomitanza con la riduzione o cessazione da parte del fisico di produrre l’enzima telomerasi che impedisce l’accorciamento dei telomeri. In altri casi, bloccando con la somministrazione della telomerasi, l’accorciamento dei telomeri, questa sorta di parti terminali dei cromosomi composte di DNA altamente ripetuto che protegge l’estremità del cromosoma stesso dal deterioramento o dalla fusione con altri cromosomi, gli sperimentatori biologi sono stati in grado di rallentare di molto l’avanzare delle caratteristiche fisiche dell’invecchiamento. David Kipling, che studia l’invecchiamento all’Università di Cardiff, Lynne Cox, biochimico all’Università di Oxford, Tom Kirkwood, direttore dell’Institute for Ageing and Health (Istituto di Invecchiamento e Salute) all’Università di Newcastle, pur estremamente galvanizzati dalle loro ricerche, non hanno tutti lo stesso entusiasmo e temono l’esperimento sull’Uomo che non è, sostengono giustamente, un topino da laboratorio. La telomerasi riattiva la produzione cellulare, ma non solo delle cellule giuste, anche di quelle tumorali, quindi si ha un gran timore ad usarla su esseri umani stagionati nel cui fisico potrebbero trovarsi, con gran probabilità, cellule tumorali allo stato latente. Resta il fatto che i topini che hanno ricevuto questa manipolazione hanno vissuto bene e in piena salute, rigenerando i loro organi e durando quattro volte di più rispetto ai topini che non hanno ricevuto il trattamento. Se tali processi si applicassero all’uomo con le dovute accortezze e conoscenze, la vita aumenterebbe di quattro volte tanto se non addirittura diverrebbe infinita. Sembra che molti gruppi di studiosi in genetica, senza troppa pubblicità, stiano cercando di giungere a realizzare l’immortalità. In un futuro non molto lontano, si morirà soltanto per cause accidentali e non più per la consunzione biologica degli organi. Questa scoperta suona quasi una risposta rivoltosa alla condanna del Dio giudaico cristiano che caccia l’Uomo dall’Eden perché aveva mangiato il frutto dell’albero della conoscenza. Atto quanto mai “luciferino” poiché costituisce una ribellione del tutto simile a quella dell’angelo più “bello”, Lucifero, per l’appunto, il portatore di luce (dal sostantivo latino lux: luce e dal verbo fero: portare). La luce era anche la caratteristica del dio greco antico Apollo, divinità della scienza che “illumina” l’intelletto.
La scienza non è mai andata molto d’accordo con la religione. Il cristianesimo, in particolare, si è distinto nei secoli per l’opposizione anche cruenta alla scienza. Basti pensare a Ipazia d’Alessandria, l’astronoma che alcuni storici suppongono scoprì la prima legge di Keplero sulle orbite ellittiche dei pianeti, almeno tredici secoli prima, uccisa, secondo Damascio, dall’invidia del vescovo Cirillo o comunque, secondo Socrate scolastico, suo contemporaneo, dalla forte contrapposizione tra le fazioni politica e religiosa. Delle sue scoperte non si ha certezza poiché le sue opere, i tredici volumi di commento all’aritmetica di Diofanto, gli otto volumi delle Coniche di Apollonio, il trattato sulle orbite dei pianeti, il trattato su Euclide e Claudio Tolomeo, il Corpus astronomicum, i testi di meccanica, gli strumenti scientifici da lei inventati furono distrutti per ordine del patriarca d’Alessandria Cirillo. (Ronchey, S., 2011). Il pensiero va anche a Galileo Galilei che, sulla scia del sogno degli infiniti mondi del domenicano Giordano Bruno, terminato sul rogo, impostò le sue ricerche astrofisiche e dovette subire condanne tremende a causa dei suoi studi “scientifici”. Nella conta rientrano anche le persecuzioni contro gli Gnostici, gli Albigesi, I Catari, gli Ugonotti e tutti quelli che, con un pensiero “diverso”, minavano alla base il potere temporale della chiesa più costituita e “ortodossa”.
Sulla paura della morte e il “controllo” della sua gestione si è sempre giocato uno scontro di poteri da parte dei “rappresentanti” delle varie religioni, nel nostro mondo occidentale in particolare. È per questo che molti libri e scritti prodotti da pensatori in rotta di collisione con tale “gestione” che liberano l’essere umano da tale fobia sono stati perseguitati e addirittura distrutti o messi “all’indice”. Gli scritti di Epicuro, Il De rerum natura di Tito Lucrezio Caro, il secondo libro della poetica di Aristotele (ricordiamo Il nome della rosa di Umberto Eco, dove questo libro è la chiave del mistero delle morti dei frati nell’abazia?), tutti gli scritti scientifici che spiegano com’è iniziata la vita e il perché della morte non dal punto di vista fideistico, gli studi sulla composizione materiale dei nostri corpi che sono fatti degli stessi, identici atomi di cui sono fatti gli astri e che, dopo la morte, non faranno altro che tornare alla Terra, inteso come pianeta ancor prima che come suolo, tutto questo sapere non è gradito ai gestori delle fedi e ai pensatori del trascendente.
Friederick Nietzsche è il portabandiera del moderno pensiero materialista e nichilista. Egli pensava che il decesso non è altro che un ritorno da dove siamo venuti, cioè alla terra; lo libera da qualsiasi giudizio di merito e non intende più il morire come un’espressione esecrabile contro l’esser umano e il creato, ma in quanto estrema espressione di appartenenza alla terra: “Così voglio morire anche io, affinché voi, amici, amiate la terra ancor più, per amor mio; e voglio tornare a essere terra, per aver pace in colei che mi ha generato” (Nietzsche, F., 1883-85).
I colleghi psicologi che lavorano nei centri terminali della vita constatano quanto un malato, ancora in grado di intendere, manifesti vari tipi di risposta psicologica: negazione, rifiuto, isolamento, depressione, ira, e, non molto di frequente, accettazione. La causa è la paura primordiale che ognuno ha per il non conosciuto. Passare le “colonne d’ercole” della nostra vita non sarà facile per nessuno e questo momento di transizione merita la massima considerazione, la sospensione da ogni giudizio e l’annullamento della supposizione di sapere la verità sull’Uomo e sul suo naturale destino.
In conclusione, la paura della morte è legata alla coscienza del sé. Nell’essere umano è vissuta con largo anticipo rispetto al resto del mondo animale, proprio per questa peculiarità del tutto antropica. Perciò l’attenzione che l’umanità pone alla vita è straordinaria e, con ogni probabilità, è una delle migliori strategie per la sopravvivenza della specie. Infatti, nonostante i vari modi d’approcciarla e le varie e immani catastrofi naturali, siamo ancora su questo pianeta. Nonostante tutto, dobbiamo convincerci che la morte è parte strutturante della vita, quindi accoglierla nel senso del suo valore salvifico, che non è una contradizione in termini.
A proposito di accettazione della fine della vita, vorrei chiudere questo volo radente sul suo termine citando, io che non sono credente, i versi di un grande santo della Chiesa Cattolica, forse il santo più vero che abbia mai avuto:
“ Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente po’ skappare: guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda no ‘l farrà male..” (San Francesco, 1224).
Siate sereni, invece, se è vero che esiste Dio, proprio in virtù della sua infinita bontà, sia che moriate in peccato mortale sia che lo farete fuori della sua volontà, non avrete a soffrire alcuna penitenza: “L’inferno esiste solo per chi ne ha paura”.
BIBLIOGRAFIA
Damascio
Vita di Isidoro, In Ipazia, La vera storia di Silvia Ronchey, Rizzoli, Milano, 2010
Dante Alighieri
Divina Commedia, Inferno, IV, 136, Edizioni Polaris, Vicchio di Mugello (Fi), 1990
Epicuro
Lettera sulla felicità (a Meneceo), 124, 126, Stampa alternativa, Roma,1990
Genesi, 3,19
La Bibbia, vesione ufficale CEI, edizioni San Paolo, Roma, 2012
Lucrezio Caro
De rerum natura, III, 830, Mondadori, Milano, 2007
Nietzsche, F.
1883-85 Così parlo Zarathustra, Adelphi, Milano, 1968
Orazio
Odi, I, 11, Adelphi, Milano, 2018
Ronchey, S.
2010 Ipazia, la vera storia, Rizzoli, Milano
San Francesco,
1224 ca. Cantico delle creature, Editore Porziuncola, Assisi (Pg), 2018
Seneca L.A.
40 d.C. ca. Consolatio ad Marciam, X,5, Collana Sormani, Avia Pervia, 2001
Seneca L.A.
De brevitate vitae, I, 3, Mondadori, Milano, 2010
Socrate Scolastico
Storia ecclesiastica, In Ipazia, La vera storia di Silvia Ronchey, Rizzoli, Milano, 2010
Vangelo secondo Luca, 12,24
in La Bibbia, versione ufficiale CEI, edizioni San Paolo, Roma, 2012
Ivan Battista
Psicologo, psicoterapeuta, docente presso la Scuola Medica Ospedaliera,
Ospedale Santo Spirito, Roma