UNO SGUARDO SUL BUIO (parte prima)
di Ivan Battista
12 Novembre 2018

La morte, non è nulla per noi,
perché quando ci siamo noi
non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo più noi.

Epicuro, Lettera a Meneceo, 125

Ciò che fa la differenza tra noi umani e il resto degli esseri viventi è la coscienza di sé e, di conseguenza, la consapevolezza del nostro limite di vita. Sapere che un giorno dovremo andarcene per ritornare nel buio dal quale siamo venuti è la nostra immane condanna, ma anche il nostro maggiore punto di forza. Senza questa caratteristica del tutto umana non si sarebbe sviluppata alcuna evoluzione civilizzata. Sì, perché tutte le azioni e le attività che esulano dal primario sforzo per mantenersi vivi, costituiscono ciò che va a creare la cultura e, dunque, la civiltà. Pensiamo solo ai riti funerari nei secoli, alla loro diversità quale espressione di sapere e convinzioni diversi. Fin dalla notte dei tempi si procedeva alla sepoltura dei corpi. Sono stati ritrovati resti umani intenzionalmente composti e posizionati in modo particolare finanche del Neanderthal. Gli Egizi mummificavano, i Greci cremavano e incenerivano i corpi dei defunti, gli Etruschi disponevano i resti dei cari estinti in case fornite di tutto il necessario per la vita ultra terrena e lasciavano negli ambienti le suppellettili e gli oggetti più cari, i Romani inizialmente sotterravano i propri cari estinti sotto il pavimento delle loro abitazioni. In seguito, con l’influenza della cultura greca (Graecia capta ferum victorem cepit, et artes intulit agresti Latio, Orazio Epistole, II, 1, 156) i Romani, “feroci” vincitori della Grecia, ma culturalmente conquistati dall’Ellade, cominciarono ad usare le pire funerarie anche loro.

I riti funebri assolvono alla necessità di affrontare il momento del distacco dal caro estinto. I parenti stretti, aiutati e sostenuti sia dal rito stesso sia dai partecipanti che esprimono insieme con loro il cordoglio, colgono dal funerale la possibilità della migliore elaborazione del “lutto”. Le liturgie funerarie adempiono anche al compito di consegnare definitivamente il dipartito alle forze oscure del decesso creando uno iato non più oltrepassabile in senso inverso.
Soprattutto in quelle civiltà in cui si è sviluppata l’idea di una vita metafisica oltre la vita terrena possiamo riscontrare il principio psicologico difensivo dell’Io volto ad esorcizzare la fobia dovuta all’annullamento della propria unica e irripetibile individualità. Tali culture presupponevano l’esistenza dell’anima, entità ontologica immateriale distinta dal corpo materiale che, secondo la credenza, gli sopravviveva. Contrariamente, l’atomista Democrito, il filosofo che secondo Dante “il mondo a caso pone” (Inferno, IV, 136), sostiene che l’anima muore con il corpo poiché composta dagli stessi elementi (gli atomi) che si disgregano subito dopo il trapasso.
La morte fa così parte della vita che potremmo asserire che ogni nascita in definitiva è una “condanna a morte”: “Se ti duoli che tuo figlio è morto, è colpa del giorno in cui egli è nato.” (Seneca, L. A., Consolatio ad Marciam, X, 5). La componente essenziale di ogni vita è il tempo che ne scandisce i periodi e gli inevitabili cambiamenti. Il suo trascorrere inesorabile verso il “buio eterno” è così presente nella psiche dell’Homo sapiens sapiens che ha favorito l’insorgere del mito dell’immortalità e dell’eterna giovinezza. Sappiamo che i miti racchiudono delle verità archetipiche e hanno sempre svolto una funzione protettiva della mente. Quindi l’immaginario collettivo che li produce denuncia l’esigenza di verità assolute quali difese all’angoscia che la difficoltà del vivere pone nel cammino di ognuno di noi. Avere coscienza della nostra mortalità ci mette davanti al fatto che abbiamo soltanto un tempo limitato per realizzare il senso del nostro trascorrere terreno. Vero è che riuscire a raggiungere il senso della nostra vita è la condizione essenziale per poter affrontare il nostro trapasso con meno drammaticità e più serenità. Avere il senso di compiutezza della nostra vita ci dispone in modo meno sofferente nei confronti dello sguardo sul buio che dobbiamo inevitabilmente lanciare, volenti o nolenti.

La cultura occidentale contemporanea ha una grande difficoltà a parlare della morte, tende ad esorcizzarla con il silenzio, con l’ironia e il sense of humor. Esempio letterario calzante è la commedia in quattro atti Lady Windermere’s fan (Il ventaglio di Lady Windermere), uno scritto del grande autore irlandese Oscar Wilde risalente al 1892. In quest’opera Wilde tratta la cronaca di un omicidio annunciato con spassosissimo umorismo britannico.
Sarebbe opportuno, invece, non scotomizzare la paura della dipartita e ragionarci su con calma e chiarezza. Scopriremmo, in questo modo, che il lavoro psicologico da fare è sulla solitudine. Riuscire ad accettare il principio che siamo tutti soli al mondo, anche se contornati dall’amore parentale e amicale, e che essere in grado di caricarsi il peso di tale condizione ci fa più forti ed equilibrati nella gestione delle relazioni, è un passo importante verso la saggezza, vera e propria meta di ogni esistenza. Saper vivere la propria dimensione ontologica della solitudine neutralizza, almeno in parte, lo spauracchio del grande buio verso il quale tutti viaggiamo ineluttabilmente.
Come esistono più tipi di viaggio, più tipi di vita, così abbiamo più tipi di morte. C’è la morte annunciata, quella improvvisa, quella dolce e quella dolorosa, quella tardiva e quella precoce. Restando nell’ambito delle tipologie di decesso e dell’imprescindibile angoscia che esse producono, abbiamo il prodotto fantastico/letterario della non morte. Le opere di tal genere evidenziano ulteriormente il grande terrore che il “richiamo” di coloro che se ne sono andati esercita su di noi e l’urgenza di porre un distacco netto e definitivo tra chi è vivo e chi è morto. Nasce da questi presupposti il mito del revenant. Il redivivo, colui che torna dalle tenebre dell’al di là e si pone in una dimensione crepuscolare tra la vita e la morte, il non vivo e non morto: il vampiro.
Uno dei più interessanti ed antichi scritti sul vampiro ce lo ha lasciato lo scrittore Lucio Flavio Filostrato (II secolo d.C.) con Vita di Apollonio di Tiana. In questa biografia è riportato un “esorcismo” ad opera di Apollonio, un filosofo greco neopitagorico del primo secolo dopo Cristo, cioè lo smascheramento di una empusa, una donna in grado di nutrirsi del sangue e delle carni di giovani e avvenenti uomini. Dunque, il vampiro, questo personaggio frutto della fantasia thanatossiana di scrittori talentuosi, inizialmente non era uomo, ma donna. In effetti, l’apparizione in letteratura del vampiro quale giovane uomo che gabba la morte, colto e affascinante, d’aspetto e modi nobili, anche se portatore di uno sguardo “perturbante”, lo dobbiamo a John Willam Polidori. John, segretario di Lord Gordon Byron, scrisse il racconto breve The vampire probabilmente ispirandosi al carattere egoico e narcisistico dell’autore di Child Harold’s pilgrimage, con il quale ebbe una dannosa relazione.
L’incognita che la dipartita racchiude in sé ci attrae e ci addolora al contempo. Ci seduce per il suo mistero e ci fa soffrire per la perdita delle persone a noi più care. Un altro atteggiamento del pensiero relativo alla fine della vita, che io giudico difensivo dell’Io, è la produzione mentale religiosa. La religione si pone, in genere, quale consolazione alla sconvolgente imposizione divina del pulvis es et in pulverem reverteris (Genesi, 3,19). In molte teoresi religiose, soprattutto le monoteistiche, se ci si è comportati bene in vita, è professata una dimensione premiante ultraterrena, dove l’anima immortale potrà vivere per sempre nel piacere e nella felicità. Chi ha fede è fortunato e coperto, perché potrà contare su un appoggio straordinario nel momento del trapasso. L’ateo è più esposto e può contare solo sulla forza della sua ragione. Personalmente sono più illuminista e democriteo. Razionalmente pensando, credo che la vita eterna sia una condanna d’immane terrore che incute sgomento più della morte stessa.

Nel film del 1979 di Wemer Herzog Nosferatu, Il principe della notte (Nosferatu, uno dei nomi usuali dati al vampiro, fu adoperato da Herzog poiché gli eredi del romanziere Bram Stoker non gli permisero di usare il nome Dracula, ancora sotto copyright) si svolge un emblematico dialogo tra il vampiro e Jonathan Harker. Jonathan è un esperto di estimo immobiliare (nel film, perché nel romanzo dell’irlandese Stoker è un giovane avvocato londinese) che affronta un viaggio per stimare la proprietà e il castello dello strano nobile. In questo dialogo il non morto esprime tutto il suo dolore per la sua forma del vivere eterno e crepuscolare che non permette di mettere la parola fine alla propria esistenza.

BIBLIOGRAFIA

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Ivan Battista
Psicologo, psicoterapeuta, docente presso la Scuola Medica Ospedaliera,
Ospedale Santo Spirito, Roma