Test da sforzo post-PCI nei pazienti asintomatici: hopefully the end? 
di Vittoria Rizzello
06 Settembre 2022

In occasione dell’ultimo Congresso della Società Europea di Cardiologia sono stati presentati, contestualmente alla pubblicazione online sul NEJM, i risultati del trial  POST-PCI (1) che potrebbe rappresentare il razionale per un’eventuale indicazione di classe III all’uso routinario dei test provocativi di ischemia  dopo angioplastica coronarica (PCI) .

Lo studio, multicentrico e randomizzato,  è stato condotto in Corea del Sud ed ha arruolato  1706 pazienti (età media 65+10 anni, 80% maschi) con caratteristiche anatomiche e cliniche di alto rischio, sottoposti a PCI, randomizzati (al momento della procedura) a test provocativo routinario a 1 anno (gruppo 1) o a strategia standard (gruppo 2) . Le caratteristiche anatomiche di alto rischio sono state definite come: malattia di tronco comune/by-pass o multivasale, lesioni ostiali/lunghe/coinvolgenti le biforcazioni, occlusioni totali e restenosi. I criteri clinici di alto rischio sono stati identificati nella presenza di: diabete mellito, insufficienza renale e/o sindrome coronarica acuta. Il test provocativo è stato eseguito con ecocardiografia da sforzo, scintigrafia miocardica ed ecostress farmacologico. L’ interpretazione del test e il conseguente  intervento diagnostico-terapeutico sono stati lasciati a discrezione del medico che aveva in cura il paziente.

L’ end-point primario dello studio è stato l’insieme di morte per tutte le cause, infarto miocardico o ospedalizzazione per angina instabile a 2 anni.  Gli end-point secondari hanno incluso la necessità di nuova coronarografia e nuova rivascolarizzazione coronarica.

La maggior parte (70%) dei pazienti  arruolati è stato sottoposto a PCI per una sindrome coronarica cronica; la PCI è stata effettuata con l’ausilio dell’imaging intracoronarico nel 75% dei casi e della fractional flow reserve nel 36% dei casi.  Lo studio ha dimostrato che la strategia di utilizzo routinario del test provocativo a 1 anno dalla rivascolarizzazione non migliora l’outcome a 2 anni. Infatti, l’end-point primario si è verificato in 46/849 pazienti nel gruppo 1 e in 51/857 pazienti nel gruppo 2 (HR 0.90; 95%IC 0.61-1.35; P=0.62). Nessuno dei componenti dell’end-point primario è risultato differente nei due gruppi. I pazienti sottoposti a test provocativo di routine sono stati sottoposti più frequentemente a 2 anni a  coronarografia (12% vs 9%) e a nuova rivascolarizzazione (8% vs 6%) .

Considerazioni:

Questo studio coreano presentato all’ESC 2022 appare molto interessante e clinicamente rilevante perché,  nella pratica clinica quotidiana, l’utilizzo del test da sforzo routinario dopo PCI è molto comune, anche nei pazienti asintomatici (2). Questo tipo di follow-up strumentale si è molto diffuso nonostante non sia particolarmente caldeggiato dalle linee-guida che hanno attribuito (in assenza di robuste evidenze in questo setting) una raccomandazione piuttosto debole (IIb) alla sorveglianza con test provocativo dopo PCI (3).  Nella pratica clinica tale strategia può essere dettata in parte dalla bramosia di molti cardiologi di identificare e trattare  qualsiasi stenosi coronarica che induca un certo grado di ischemia e in parte da un purtroppo diffuso atteggiamento di medicina difensiva che impatta in maniera importante sull’appropriatezza delle indicazioni e sulla spesa sanitaria.

I dati dello studio POST-PCI inducono a desistere da questa strategia di follow-up in quanto non hanno dimostrato in pazienti stabili e asintomatici alcun beneficio rispetto allo standard of care che prevede il test provocativo/coronarografia solo in presenza di sintomi sospetti per ripresa di angina.

In effetti, questi risultati sono in linea con i dati dello studio ISCHEMIA (4) che ha  dimostrato, in pazienti con malattia coronarica stabile ed evidenza di ischemia di grado moderato-severo al test provocativo,  l’inefficacia della strategia inizialmente invasiva nel ridurre il rischio di morte e di eventi ischemici cardiovascolari, rispetto alla terapia conservativa, anche nei  pazienti con precedente PCI (20% dei pazienti del trial).

Gli elementi che, nel trial POST-PCI, possono aver contribuito a determinare l’insuccesso del test provocativo routinario nel ridurre l’end-point primario sono rappresentati da un lato  dall’impiego di stent medicati nella quasi totalità dei pazienti e dal frequente utilizzo di imaging intracoronarico e fractional flow reserve (che possono aver consentito un miglior risultato della procedura di rivascolarizzazione) e dall’altro dalla particolarmente elevata aderenza della popolazione studiata alla terapia medica raccomandata in prevenzione secondaria dalle linee-guida (99% dei pazienti assumeva statine).

Questi dati ulteriormente sottolineano l’importanza di effettuare una rivascolarizzazione coronarica tecnicamente ineccepibile e di rafforzare l’aderenza terapeutica dei nostri pazienti. 

I dati dello studio POST-PCI sono quindi particolarmente benvenuti perché aggiungono un’evidenza solida in un setting clinico molto rilevante, con un potenziale grande impatto nella pratica clinica futura.

REFERENCES

  1.  Park D-W, Kang D-Y, Ahn J-M, et al https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa2208335
  2. Shah BR, McCoy LA, Federspiel JJ, et al. Use of stress testing and diagnostic catheterization after coronary stenting: association of site-level patterns with patient characteristics and outcomes in 247,052 Medicare beneficiaries. J Am Coll Cardiol. 2013;62:439-46.
  3. Neumann FJ, Sousa-Uva M, Ahlsson A, et al. 2018 ESC/EACTS Guidelines on myocardial revascularization. EuroIntervention. 2019;14:1435-1534
  4. Maron DJ, Hochman JS, Reynolds HR, et al. ISCHEMIA Research Group. Initial Invasive or Conservative Strategy for Stable Coronary Disease. N Engl J Med. 2020;382:1395-1407.