La duplice terapia antiaggregante (DAPT) con aspirina e con un inibitore del P2Y12 rappresenta la pietra miliare del trattamento farmacologico dei pazienti sottoposto a stenting coronarico, e mentre nelle sindromi coronariche acute (ACS) la scelta ricade molto spesso su ticagrelor e prasugrel, inibitori piastrinici dall’azione più rapida e più potente, nelle sindromi coronariche croniche (CCS) le linee guida supportate dalle evidenze consigliano sempre il clopidogrel [1]. Tuttavia, nonostante nei soggetti con angina stabile l’impiego di inibitori piastrinici di ultima generazione sia da considerarsi “off-label”, negli ultimi anni si è assistito ad una loro crescente utilizzazione in questo setting con lo scopo di ridurre l’incidenza di eventi ischemici periprocedurali ed a lungo termine nei pazienti considerati a più alto rischio [2].
Proprio riguardo a questo tema, su uno degli ultimi numeri della rivista internazionale Eurointervention è stato pubblicato un grande studio retrospettivo condotto presso il Mount Sinai Hospital di New York con lo scopo di confrontare la sicurezza e l’efficacia di clopidogrel versus prasugrel o ticagrelor in una popolazione real word di soggetti sottoposti a rivascolarizzazione coronarica percutanea per CCS [3]. Questo registro ha incluso tutti i pazienti rivascolarizzati per angina stabile nei cinque anni dal 2014 al 2019 e poi trattati con duplice terapia antiaggregante con aspirina e clopidogrel oppure prasugrel/ticagrelor. Sono stati esclusi pazienti con ACS, shock cardiogeno ed indicazione ad assumere terapia anticoagulante orale. Il tipo di DAPT e la sua durata sono stati lasciati a discrezione dell’operatore, anche se per prassi del centro di solito continuata per 12 mesi. L’endpoint primario dello studio è stato un composito di morte per tutte le cause ed infarto miocardico di tipo 1 durante il primo anno di follow-up. Sono stati considerati endpoint secondari: la target lesion revascularisation, la trombosi dello stent, i sanguinamenti e le singole componenti dell’endpoint primario. Sono state definite “complesse” le angioplastiche che hanno soddisfatto uno dei seguenti criteri: lunghezza totale dello stent ≥ 60 mm, numero totale di stent ≥ 3, numero totale di lesioni trattate ≥ 3, numero di vasi target ≥ 3, lesioni in biforcazione trattate con ≥ 2 stent, occlusioni croniche.
Un totale di 11508 pazienti sono stati inclusi nell’analisi finale dello studio, con una età media di 66 anni e con il 26.8% di donne. Il clopidogrel è stato impiegato in oltre il 75% dei soggetti (8648), seguito poi dal ticagrelor nel 15% dei casi (1717) e dal prasugrel in circa il 10% (1143). L’accesso femorale è stato quello più comunemente utilizzato (in oltre l’80% della popolazione) e nel 35% dei casi è stata soddisfatta la definizione di angioplastica complessa. Per quanto riguarda le principali caratteristiche cliniche e procedurali i due gruppi hanno presentato delle differenze significative che sono state probabilmente quelle che hanno condizionato la scelta di un antiaggregante più o meno potente, per esempio i pazienti trattati con prasugrel e ticagrelor hanno mostrato una più alta incidenza di diabete mellito e di storia di pregressa angioplastica coronarica. I pazienti dimessi in terapia con clopidogrel sono risultati tendenzialmente più anziani e con una più alta incidenza di pregresso ictus, bypass aortocoronarico, insufficienza renale cronica e neoplasia. Al contrario caratteristiche di complessità anatomica della malattia coronarica (come ad esempio interessamento del tronco comune o lesione in biforcazione) e di complessità procedurale (come ad esempio numero delle lesioni trattate ed impiego dell’aterectomia rotazionale) sono risultate significativamente prevalenti nei pazienti trattati con prasugrel o ticagrelor.
Gli autori hanno inoltre notato delle differenze temporali nella prescrizione della DAPT: dal 2012 al 2019 i soggetti trattati con clopidogrel sono passati dal 76% al 67.7%, la prescrizione di ticagrelor è aumentata dal 8.2% al 21.9% (p < 0.001 per entrambi), mentre l’uso di prasugrel è risultato abbastanza stabile nel tempo. Riguardo gli outcome procedurali, non sono state evidenziate differenze significative tra i due gruppi nell’incidenza di complicanze periprocedurali come ad esempio chiusura di rami collaterali, fenomeni di no-reflow e slow-flow ed improvvisa chiusura del vaso. Nonostante l’accesso femorale sia stato predominante, l’incidenza di complicanze nel sito di accesso vascolare è stata molta bassa e senza differenze significative tra i tre diversi agenti antipiastrinici.
Riguardo gli outcome clinici, a 12 mesi l’endpoint primario di morte ed infarto miocardico si è verificato in 68 soggetti (2.7%) trattati con ticagrelor e prasugrel ed in 223 soggetti (3.1%) trattati con clopidogrel (HR 1,19, p= 0.325). Per quanto concerne gli endpoint secondari, anche in questo caso non ci sono state differenze nell’ictus e nella trombosi dello stent, così come nella target lesion revascularisation e nei sanguinamenti. Un trend verso una più bassa incidenza dell’endpoint primario è stato individuato analizzando singolarmente i pazienti trattati con il prasugrel rispetto a quelli trattati con clopidogrel (p=0.08). I risultati della popolazione generale sono stati confermati in tutti i sottogruppi (genere, diabete mellito, angioplastiche complesse); inoltre è stata condotta una sotto-analisi distinguendo i pazienti in base all’alto rischio di sanguinamento (HBR) ed è stato trovato che in generale il numero di complicanze, sia ischemiche che emorragiche, è stato più elevato nei soggetti con HBR rispetto a quelli senza HBR ma senza alcuna differenza legata alla tipologia del secondo antiaggregante.
Questo registro presenta il merito di aver scattato una sorta di fotografia di come è cambiato l’approccio alla gestione della terapia antiaggregante in un’ampia popolazione americana di pazienti con sindrome coronarica cronica. Gli autori sottolineano alcuni importanti spunti di riflessione:
- Nonostante i suggerimenti delle linee guida, l’impiego di prasgurel e ticagrelor è progressivamente cresciuto nel tempo ed in questo setting ormai un antipiastrinico potente viene utilizzato in un paziente su tre
- Mentre la scelta del clopidogrel viene riservata al paziente considerato “più fragile” e con maggiori comorbidità, prasugrel e ticagrelor rappresentano i famaci di scelta in caso di procedure di elevata complessità
- Non sono state rilevate differenze nell’incidenza ad un anno di morte per tutte le cause e di infarto miocardico, a questo proposito si deve sottolineare come siano stati presi in considerazione endpoint clinici “hard”, in modo particolare sono stati considerati soltanto gli infarti “veri”, di tipo 1 secondo la definizione universale di infarto miocardico [4] e non si è tenuto invece conto dell’incremento dei marcatori di miocardionecrosi post procedurale
- Non sono state rilevate differenze nell’incidenza dei sanguinamenti nonostante l’uso prevalente di accesso femorale
Il registro presenta sicuramente il limite importante di essere uno studio osservazionale con disegno retrospettivo, pertanto i risultati andrebbero riprodotti e validati in uno studio randomizzato e prospettivo; tuttavia sembra suggerire che l’approccio di farsi guidare da elementi clinici e procedurali nella scelta del secondo tipo di antiaggregante valga anche per il paziente con sindrome coronarica cronica.
Bibliografia
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