Nei primi anni d’università abitai un locale nel centro di Padova, vicino al Santo, in un antico stabile gestito da una pia vecchietta, ingobbita dagli anni e dall’artrosi, ma tanto gentile e premurosa. Figura d’altri tempi, tutta “casa e Basilica”, certamente illibata, come s’era capito dalle sue idee piuttosto confuse circa la procreazione. Alla quale noi inquilini potevamo chiedere solo il piccolo riordino della stanza e il caffè del risveglio. La mattina in cui la interpellai perché l’acqua del lavandino si era affievolita e poi interrotta mi guardò da sotto la sua curvatura e con piglio sicuro mi disse: “signor, non c’è pressione”.
Non vorrei fare raffronti troppo arditi, ma negli anni a seguire, quando studiai la circolazione del sangue e poi nel trattare l’iperteso anziano, ripensai spesso a quell’episodio del flusso d’acqua dal rubinetto, che a razionalizzarlo appariva dovuto o alla cattiva erogazione comunale o ai tubi incalcariti. E ripensai alla diagnosi sempliciotta della vecchina del Santo. L’anziano, si sa, ha le arterie più rigide a causa dell’elasticità inversamente proporzionale agli anni e per mantenersi un buon flusso di sangue al cervello ha bisogno di pressioni più elevate, come avevano capito i vecchi medici condotti quando arrotondarono in “100 + gli anni” i valori pressori dopo la mezza età.
L’OMS, l’organizzazione sanitaria dell’ONU, ai tempi dell’episodio padovano proponeva limiti di 160 per la massima e di 90 per la minima; poi con le prime valutazioni epidemiologiche onde verificare quale pressione facesse vivere più a lungo consigliava i 140 su 80; e oggi, dopo gli ultimi aggiornamenti, 120 su 70-80; ossia tanto più bassa tanto meglio. Che non può essere certo un imperativo categorico poiché, ad esempio, quando arriva l’estate mantenere le dosi invernali dei farmaci rischia di provocare il collasso. Sicché il curante, accusato di non aver previsto tale variazione nella tabella di marcia, così come le molte altre dovute alla complessa regolazione pressoria e perfino alla scarsa intesa con il paziente, è richiamato a porvi rimedio.
Fino agli anni ’90 del secolo scorso, non si sa bene per quale strana convinzione medico-scientifica, l’attenzione era focalizzata soprattutto sulla pressione minima, che pareva indicasse con valori sopra gli 80-90 una particolare malignità. Negli anni successivi gli studi intrapresi ovunque nel mondo hanno dimostrato sempre più e sempre meglio che era la massima (sistolica per i medici) la più implicata sia nell’ictus che nelle altre complicazioni cardiovascolari. Lo studio che in un certo senso ha preteso di aver fatto punto su ciò, è lo SPRINT, il quale con quell’acronimo da ciclisti e con l’autorità di quasi 10 mila pazienti analizzati ha comunicato l’importanza di abbassare la massima fino ai 120, dopo i 75 anni. Una condotta terapeutica che, rispetto a quelle che concedono valori fino e oltre i 140, ridurrebbe la mortalità di circa un terzo.
A correggere in parte il tiro di tanta “severità” è apparso nel 2017 lo studio londinese del King’s College, attuato su 144.403 partecipanti, di età non inferiore agli 80 anni e seguiti dal 2001 al 2014, nel quale furono valutati anche i fattori di rischio che spesso incrementano la fragilità delle arterie. Osservandovi che la pressione sistolica inferiore ai 120 dava un rischio di mortalità decisamente maggiore a quello dei coetanei con pressioni fra 120 e 140 di massima. E rilevando inoltre che la fragilità dei vasi, dovuta ai fattori di rischio (obesità, ipertensione, fumo, ecc.), penalizzava ulteriormente i soggetti con pressione troppo bassa.
Ma non è tutto, perché la perspicacia di quegli autori inglesi si è spinta fino ad analizzare meglio i soggetti con pressione più bassa durante gli ultimi cinque anni della loro esistenza, rilevando che coloro nei quali la pressione declinava soprattutto negli ultimi due avevano una specie di innata accelerazione verso l’exitus. Essendo un’osservazione a posteriori e legata in qualche modo alle varie malattie dell’età, non sappiamo ancora bene se dobbiamo accettarla come un’inesorabile decisione di Atropo, la dea del fine vita, oppure se possiamo ancora intervenire con le meravigliose conquiste della medicina.
A questo punto qualcuno potrebbe domandarci: “Ma che fine ha fatto la pressione minima, la diastolica per i medici, cui per anni si era data tanta importanza?”
A prescindere dal significato di tale pressione quale carico sulle nostre arterie, dall’aorta alle più piccole, va premesso che le coronarie, quelle che nutrono il cuore e se malate lo danneggiano, non ricevono il sangue durante la pressione massima come gli altri organi, perché in questa fase esse sono schiacciate dalla contrazione; lo ricevono durante la successiva fase, la minima, quando si ridistendono. Qualcuno allora si è domandato: “Cosa succede nel vecchio, dove l’elasticità delle coronarie viene meno e nel loro interno spesso avvengono piccoli o grandi restringimenti, qualora la pressione minima sia troppo bassa per assicurarvi un flusso adeguato?” La risposta è arrivata da una rivalutazione recente dello studio SPRINT, in cui si è constatato che effettivamente quando la minima si abbassa sotto i 70 aumenta il rischio di sofferenza ischemica, ossia di infarto o di scompenso. Indicando una maggiore attenzione nel trattare con i farmaci il vecchio iperteso.
In conclusione, considerando la pressione arteriosa delle persone anziane, massima e minima, dobbiamo ricordare le tante fragilità e accorgimenti che vi sono implicati: i rischi dei suoi valori troppo alti, ma anche troppo bassi, specie quando tali persone si mettono in piedi e i riflessi non sono più così pronti a vincere la forza di gravità e infine le insidie di una terapia non ben rivalutata nel tempo. E senza dimenticare l’ineffabile semplificazione della vecchina padovana, per la quale il problema era molto semplice: “la pressione”, che quando è troppo bassa non è diversa da quella idraulica. Un raffronto che aiuta anche il paziente.
Eligio Piccolo
Cardiologo