I dispositivi di assistenza ventricolare (LVAD, left ventricular assist device) hanno acquisito un ruolo vitale nel trattamento dello scompenso cardiaco avanzato. La crescente prevalenza dell’insufficienza cardiaca, da un lato, e la ridotta disponibilità di cuori da trapiantare, dall’altro, ne giustificano il sempre più diffuso utilizzo1.
Si compongono di pochi elementi essenziali: la pompa, impiantata chirurgicamente sull’apice del ventricolo sinistro; la cannula di inflow che aggetta entro la cavità ventricolare; quindi la più breve e compatta cannula di outflow cui fa seguito un graft sintetico che viene anastomizzato con l’aorta ascendente. Così facendo, il VAD genera un flusso continuo tra il ventricolo sinistro e l’aorta ascendente, garantendo una portata variabile secondo la potenza erogata che viene modulata con un controller esterno. La sopravvivenza a uno e due anni è, rispettivamente, dell’80% e del 70% sia per i pazienti in “destination therapy” (sottoposti a impianto di LVAD come terapia definitiva dello scompenso) che per quelli in cui il VAD è stato impiantato come bridge al trapianto di cuore2. Pertanto, continuando a crescere il numero dei pazienti con assistenza ventricolare e la durata del supporto, aumenta consensualmente il riscontro delle complicanze a questo associate. Tra queste, le più comuni includono sanguinamento gastro-intestinale, eventi tromboembolici ed infezioni3.
Questo caso clinico, rappresenta invece un bignami sulle complicanze meccaniche dei LVAD, e pone l’accento sull’importanza di un approccio multi-disciplinare per la loro pronta diagnosi e trattamento.
Si tratta di un paziente di 51 anni, affetto da cardiomiopatia dilatativa familiare determinante un quadro di scompenso cardiaco avanzato. Con questa indicazione, veniva sottoposto a impianto di LVAD come bridge al trapianto di cuore. Come spesso accade, cambiava radicalmente la storia clinica del paziente, che da un quadro gravato da prognosi infausta a breve termine passava ad una capacità funzionale pressoché normale (classe NYHA II). Al follow-up, ecocardiogrammi seriati mostravano tuttavia lo sviluppo di insufficienza valvolare aortica lieve-moderata con costante chiusura della valvola, associata ad una insufficienza mitralica secondaria di grado lieve. Entrambe non variavano con il ramp-test, che consiste nell’aumento progressivo dei giri del dispositivo così da valutare gli effetti di un aumentato drenaggio del ventricolo sinistro e ottimizzare l’emodinamica del paziente.
Tra le complicanze meccaniche dei VAD, l’insufficienza valvolare aortica rappresenta quella più frequente, può insorgere, infatti, fin nel 30% dei pazienti a un anno dall’impianto, ed ha una caratteristica peculiare: quella di essere continua, ovvero presente in sistole e diastole. Fattori favorenti lo sviluppo del rigurgito sono la prolungata chiusura della valvola e la turbolenza creata dal flusso continuo in aorta ascendente. La presenza di rigurgito valvolare aortico crea un loop circolatorio per cui una porzione crescente del flusso non contribuisce alla portata anterograda tornando nel ventricolo. L’analisi dei parametri di funzione del VAD può non fornire in questo caso informazioni attendibili poiché non “calcola” il flusso di rigurgito.
A due anni dall’impianto, il paziente si presentava in pronto soccorso con un quadro di edema polmonare acuto. All’ecocardiogramma si evidenziava un peggioramento dell’insufficienza valvolare aortica, comunque continua. Non venendo adeguatamente deteso il ventricolo sinistro, si associava una insufficienza mitralica secondaria di grado severo (Figura 1). I parametri del VAD, tra cui potenza erogata e portata cardiaca stimata, erano normali, come normali erano gli indici di emolisi e il ramp-test, così da consentire l’esclusione di una trombosi del dispositivo, comunque localizzata.

Ipotizzando che lo scompenso acuto potesse essere causato primariamente dalla insufficienza aortica, veniva intrapresa terapia con sodio nitroprussiato e furosemide per via endovenosa con l’obiettivo di ridurre il post-carico ventricolare e di ottimizzare lo stato di volume, inoltre veniva regolata la potenza erogata dal VAD. Così’ facendo, si otteneva un rapido miglioramento del compenso emodinamico e, all’ecocardiogramma, risultava minima l’insufficienza aortica e pressochè scomparsa quella mitralica (Figura 2).

Nei giorni successivi, pur persistendo ottime condizioni cliniche, riscontravamo prolungate fasi di apertura sistolica della valvola aortica. Questo elemento poteva farci ipotizzare due situazioni: un miglioramento della contrattilità ventricolare sinistra in corso di terapia farmacologica, così da poter generare pressione sufficiente ad aprire la valvola aortica in sistole; oppure un problema nel funzionamento del VAD con la perdita ricorrente del supporto ventricolare.
Purtroppo, il paziente peggiorava improvvisamente, si configurava un quadro di shock cardiogeno e l’analisi del VAD mostrava in questo caso un drammatico calo della portata, inferiore ai 2 L/min. Considerata la criticità della situazione, si provvedeva all’impianto di ECMO veno-arterioso periferico (accesso femorale) e a esame angiografico urgente.
In una procedura effettuata con accesso retrogrado al graft di ouflow del VAD, quindi iniettando mezzo di contrato nella direzione opposta al flusso ematico, giungevamo finalmente alla diagnosi: una stenosi sub-occlusiva a livello della porzione prossimale del graft di outlflow, correlata a un suo kinking, una torsione intorno al proprio asse (Figura 3).

Attraverso l’utilizzo di materiale “periferico”, non comunemente utilizzato per le procedure coronariche, venivano effettuate pre-dilatazione, impianto di stent ricoperto e successiva post-dilatazione del graft di outflow, con la completa risoluzione dell’ostruzione all’efflusso (Figura 4).

Non appena ripristinato un normale funzionamento del VAD, il paziente andava nuovamente in contro un quadro di instabilità emodinamica, caratterizzato da acuta dilatazione e disfunzione del ventricolo destro, con conseguente shift verso sinistra del setto interventricolare e shock ostruttivo. L’accensione di un VAD, o, come in questo caso, il ripristino di un suo normale funzionamento, rappresentano un momento critico per il ventricolo destro. Questo, improvvisamente, si trova a dover fronteggiare un precarico marcatamente aumentato (la portata determinata dal dispositivo) e perde il contributo sistolico del setto inter-ventricolare. Inoltre, dobbiamo pure considerare le pressioni e resistenze vascolari polmonari, con ogni probabilità aumentate in un paziente sottoposto a impianto di VAD per un quadro di scompenso avanzato. In una simile situazione, si è deciso di inserire una cannula in arteria polmonare per via trans-giugulare destra, così facendo, siamo passati da un supporto al circolo mediante ECMO ad un supporto temporaneo destro femoro-polmonare (Figura 5).

Il paziente è stato così stabilizzato e, dopo tre giorni, è stato svezzato dall’assistenza temporanea e sottoposto ad una TC di controllo che ha mostrato la completa pervietà dello stent impiantato.
In conclusione, la disfunzione di un VAD è associata ad elevata mortalità e il twisting del graft di outflow ne rappresenta una causa singolare, per cui l’approccio interventistico con impianto di stent si è rivelato una opzione terapeutica valida ed efficace. Infine, a dispetto dei trial sinora pubblicati (che non hanno mostrato alcun miglioramento della sopravvivenza nei pazienti con shock cardiogeno), i supporti temporanei, quando indicati e opportunamente utilizzati, mostrano elevata efficacia e dinamismo.
I più sinceri complimenti e un sentito ringraziamento al Prof. F. Musumeci, al Dott. A. Montalto e al Dott. M. Feccia dell’Unità di Cardiochirurgia dell’Ospedale San Camillo, al Dott. R. Stio dell’Unità di Emodinamica e all’intera Unità di “Diagnostica e Follow-up dello Scompenso Chirurgico” diretta dal Dott. V. Polizzi.
BIBLIOGRAFIA
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- Kalathiya RJ, Grinstein J, Uriel N, Shah AP. Percutaneous Transcatheter Therapies for the Management of Left Ventricular Assist Device Complications. J Invasive Cardiol. 2017;29:151-162