QUANDO LA FIBRILLAZIONE E’ UN SEGNO
di Eligio Piccolo
01 Dicembre 2020

Per molto tempo la si è considerata una malattia di cuore, mentre è “solo” un’aritmia, un segnale di una possibile cardiopatia. A rigore il cuore fibrillante rivela quasi sempre un sottofondo di anomalia ed è su questa eventualità che il medico ha concentrato la sua attenzione. Specie un secolo fa quando imperavano le malattie valvolari, tipicamente la stenosi mitralica, residuato di pregresse infiammazioni reumatiche. A quei tempi la popolazione non aveva ancora guadagnato quei venti anni di vita media in più, che hanno consentito di far emergere un nuovo tipo di fibrillazione dovuto all’involuzione “fisiologica” degli atri con l’età. E anche quando ciò è progressivamente avvenuto tutti hanno continuato a considerarla una vera malattia.

 

In realtà, in molti di questi casi essa lo è o lo diviene se non le diamo la dovuta importanza, se non la riconvertiamo in tempi brevi nel ritmo normale, se non impostiamo una sua prevenzione con farmaci o con l’ablazione in casi selezionati, se non modifichiamo lo stile di vita, ma soprattutto se non individuiamo il momento giusto per iniziare la terapia anticoagulante. Infatti, di per sé la fibrillazione atriale, se il cuore non è malandato per altre patologie, non lo scompensa, né lo ferma; se invece viene lasciata alla sua evoluzione, imprevedibile in partenza, può dare embolie con ictus e insufficienze varie, fino all’exitus.
Altri segni in medicina possono essere banali o al contrario preoccupanti. Per rimanere vicini al sistema cardiovascolare consideriamo lo svenimento o perdita di conoscenza. La causa può essere una semplice emozione che riduce improvvisamente la pressione ed è risolvibile mettendo la persona distesa o rianimandola con i “sali” di antica memoria; ma la perdita della coscienza può essere provocata anche da un’aritmia grave legata ad un infarto o ad altre patologie. La discriminazione oggi non preoccupa più, poiché i mezzi diagnostici che abbiamo a disposizione sono tali da arrivare in breve tempo nelle più recondite disfunzioni del cuore o del cervello.
Ma ritornando alla fibrillazione atriale potrebbe essere significativo un ricordo personale su mio nonno Domenico, agricoltore, uomo austero e morigerato in tutto, che si conteneva nel mangiare, il necessario diceva ed evitando il “pesante”, magro, asciutto ed ex bersagliere. Il quale, per dire quanto di generica e di prevenzione fosse entrata nella cultura contadina, sosteneva con i suoi figli e nipoti che la moglie o il marito vanno scelti con un occhio al pedigree di eventuali tare o condotte sconvenienti; e che a una certa età l’amore lo si poteva fare, ma con forchetta e coltello, con i dovuti riguardi. Il vanto della virilità intramontabile di alcuni moderni ganimedi o addirittura il sesso sfrenato erano espressioni di là da venire. Egli campò fino ai 75, che allora era già un traguardo al quale ognuno sperava pur mirando agli 80, ma da un racconto che mi fece mia madre, sua figlia, mi ha fatto pensare che il fine vita glielo anticipò una fibrillazione, non curabile a quei tempi, scatenata da un banale incidente: durante un pranzo festaiolo un nipote, abituato agli scherzi tra giovani, gli tolse la sedia di sotto e lo fece cadere di tonfo. Da quel momento non stette più bene e rapidamente lasciò questo mondo. Con il senno di oggi quella fibrillazione fatale da me ipotizzata, senza quell’incidente, forse gli sarebbe arrivata qualche anno dopo, magari agli ottanta.


Il racconto mi consente di sottolineare che la fibrillazione atriale, oggi così frequente da destinare alcuni cardiologi ad uno studio e a cure particolareggiati e dedicati, è ovviamente un segno di malattia, ma che a differenza di un secolo fa la sua possibile “cancellazione” con gli esami e i nuovi trattamenti le dà più le caratteristiche di un segnale che di una vera malattia. Non in tutti i casi, si capisce, ma in molti le moderne cure la rende forse non determinante nell’accorciarci la vita. Gli esegeti di questa problematica hanno costruito una specie di monogramma, nel quale si indicano i fattori che favoriscono l’aritmia, quali la presenza di una cardiopatia, la pressione alta, il diabete, un ictus e altre vasculopatie. E volendoci quasi assicurare che tanto più la fibrillazione compare in loro assenza tanto più essa è solamente un segno, facile da rintuzzare.
La caduta a terra senza difese, come in nonno Domenico, non è l’unico fattore scatenante, da tenere distinti da quelli favorenti della formula suddetta; altri sono stati segnalati in letteratura, come lo sforzo nello spalare la neve o quello, ‘o sfuorzo, che i napoletani riferiscono nell’amplesso, o un’emozione e altri stress. In particolare gli interventi chirurgici al cuore, ma anche di altri organi, come riferisce su JAMA 2020 Alanna Chamberlain e il suo gruppo della Clinica Mayo di Rochester. I quali dal 2000 al 2013 hanno osservato la comparsa di fibrillazione atriale in 452 pazienti durante il primo mese del postoperatorio, con un rischio di ictus o TIA di quasi tre volte maggiore rispetto ai controlli. Richiamando quindi l’attenzione a un trattamento anticoagulante preventivo, peraltro già segnalato molti anni fa per gli operati ortopedici o dell’addome.
Non vorrei allargarmi troppo, ma è bello constatare che un’aritmia quasi maligna un secolo fa sia diventata quasi benigna grazie ai progressi medici. Una specie di vaccino, un po’ laborioso certamente, ma che consente al medico di portare con orgoglio il fonendoscopio a tracolla.

Eligio Piccolo
Cardiologo