Quando il PFO fa paura: caratteristiche anatomiche e funzionali di alto rischio
di Flavio G. Biccirè intervista M. Zimarino
08 Ottobre 2021

Flavio G. Biccirè: Professor Zimarino, si sente sempre più parlare di forame ovale pervio. In cosa consistente e qual è la sua prevalenza nella popolazione adulta?
M. Zimarino: Il forame ovale rappresenta una pervietà tra il septum primum ed il septum secundum in prossimità della fossa ovale, la quale risulta fondamentale durante la vita fetale. In una percentuale non trascurabile (circa 25%) della popolazione si assiste alla mancata chiusura di questa pervietà e quindi alla sua persistenza anche dopo la nascita.

Flavio G. Biccirè: In che modo un PFO può risultare pericoloso?
M. Zimarino: È stata ampiamente dimostrata la correlazione del PFO con la presenza di eventi tromboembolici sul versante arterioso in relazione alla possibile embolizzazione paradossa destro-sinistra. Ogni anno circa 350.000 persone di età compresa tra i 18 e 60 anni e con PFO presentano un ictus ischemico criptogenico. La tromboembolia criptogenica del circolo di sinistra viene definita come qualunque evento ischemico del circolo sinistro di natura criptogenica includendo al suo interno anche lo stroke criptogenico. Nel momento in cui il PFO viene individuato come correlato all’ evento ischemico cerebrale è bene parlare di stroke correlato al PFO e non più di stroke criptogenico.

Flavio G. Biccirè: Prof. Zimarino, qual è il meccanismo principale attraverso il quale un PFO può determinare uno stroke criptogenico?
M. Zimarino: L’embolia paradossa rappresenta senza dubbio il principale meccanismo in grado di correlare il PFO ad un evento ischemico cerebrale; si assiste infatti alla migrazione di un trombo dal sistema venoso al sistema arterioso. Altri meccanismi fisiopatologici alternativi alla base della correlazione PFO-stroke sono rappresentati dalla formazione di un trombo a cavallo del difetto interatriale, la disfunzione atriale sinistra e le aritmie sopraventricolari.

Flavio G. Biccirè: In quanti soggetti con stroke si può riconoscere il PFO come principale causa eziopatogenetica?
M. Zimarino: Tutt’oggi la stretta dimostrazione del rapporto di causalità tra PFO e stroke resta una questione di estrema complessità avendo il PFO un’elevata prevalenza nella popolazione generale tale da poter giustificare la sua identificazione anche come un semplice riscontro incidentale. È quindi necessaria un’estrema accuratezza nella valutazione delle caratteristiche di rischio di stroke del PFO in modo da selezionare quei pazienti che realmente beneficerebbero di un trattamento di chiusura del PFO, evitando una correzione “cosmetica”.

Flavio G. Biccirè: Dunque, in un soggetto con stroke, il PFO può essere sia un attore protagonista che uno “spettatore innocente”?
M. Zimarino: Sicuramente un ruolo importante è giocato dall’età, in considerazione del fatto che, nelle prime decadi di vita, condizioni congenite quali il PFO rivestono senza dubbio un ruolo fondamentale nella fisiopatologia dell’evento ischemico, mentre già dopo la quinta decade di vita si assiste ad una maggiore prevalenza di altri meccanismi patogenetici. La fibrillazione atriale silente è senza dubbio la principale causa di stroke embolico per cui rappresenta il principale agente causale da indagare nel work-up diagnostico nei pazienti di età ≥ 55 anni, anche tramite un monitoraggio prolungato elettrocardiografico, per i quali appare anche giustificato l’impianto di loop recorder.

Flavio G. Biccirè: Quali sono le altre cause frequenti di stroke?
M. Zimarino: Altre cause di stroke sono rappresentate dall’aterosclerosi dell’arco aortico o del distretto intra- ed extra-cranico, dalle cardiomiopatie atriali, dall’embolia paradossa non-PFO relata (malformazione arterovenose, difetti del setto interatriale e tetralogia di Fallot), da patologie neoplastiche, da processi endocarditici di diversa natura e dalle trombofilie ereditarie. Solamente dopo aver escluso la fibrillazione atriale in prima battuta e le altre principali cause di eventi embolici, è opportuno indagare la presenza di PFO e successivamente le sue eventuali caratteristiche di alto rischio.

Flavio G. Biccirè: Ammettiamo che un paziente non abbia una causa di ictus identificata. Ci sono dei criteri che ci aiutano a capire se effettivamente la presenza del PFO in quel paziente sia correlata ad un rischio aumentato di evento cerebrale?
M. Zimarino: Nei pazienti con PFO, i criteri di rischio di stroke vengono classificati in clinici, anatomici, funzionali e circostanziali. Il RoPE score (Risk of Paradoxical Embolism), elaborato sulla base di 12 database, combina alcuni di questi criteri con l’obiettivo di distinguere i PFO potenzialmente correlati allo stroke da quelli riscontrati incidentalmente. Tra i criteri anatomici del PFO è necessario indagare la sua ampiezza, la sua lunghezza, la presenza di un eventuale aneurisma del setto interatriale o di ipermobilità del setto interatriale (setto “floppy” con escursione del setto interatriale ≥ 5 mm), la prominenza ≥ 10 mm in atrio destro della valvola di Eustachio o della rete di Chiari ed infine l’eventuale presenza di un angolo acuto tra la vena cava inferiore ed il PFO. La valutazione ecocardiografica funzionale prevede inoltre la valutazione di un’eventuale ampio shunt destro-sinistro attestato dal passaggio di un numero ≥ 20 microbolle in atrio sinistro, a riposo o durante manovra di Valsava. Nell’ambito della valutazione clinica, i criteri associati a maggiore rischio di ricorrenza di stroke PFO-relato sono rappresentati dall’età avanzata, dalla presenza di disordini della coagulazione, dal D-Dimero >1000 ng/mL al momento del ricovero e dall’uso dell’acido acetilsalicilico rispetto alla terapia anticoagulante orale.

Flavio G. Biccirè: I primi trials randomizzati sulla chiusura percutanea del PFO (CLOSURE I trial, PC trial and RESPECT trial) non hanno dimostrato in nessun caso una significativa riduzione di ricorrenza di stroke nei pazienti sottoposti a chiusura del PFO rispetto ai pazienti trattati con sola terapia antitrombotica. Come mai?
M. Zimarino: Senza dubbio la mancata selezione di PFO con caratteristiche di alto rischio, uno scarso rigore nella selezione degli stroke realmente criptogenici e la brevità del follow-up nell’ambito di un rischio di ricorrenza di eventi ischemici annuale così basso, hanno contribuito ad ottenere tali risultati deludenti. 

Flavio G. Biccirè: Cos’è cambiato successivamente?
M. Zimarino: Nel 2017 altri studi randomizzati (CLOSE trial, DEFENSE-PFO trial, REDUCE trial, subgroup analysis of long term RESPECT study), selezionando pazienti con PFO a rischio maggiore e considerando un follow-up più lungo rispetto ai trials precedenti, hanno smentito i risultati precedentemente ottenuti e dimostrato una significativa riduzione della ricorrenza di stroke ischemici in seguito a chiusura del PFO rispetto alla sola terapia antitrombotica (terapia antiaggregante o anticoagulante). La superiorità della strategia di chiusura del PFO è stata documentata in tutti i trials sopramenzionati.

Flavio G. Biccirè: Ci possono essere delle complicanze legate all’intervento?
M. Zimarino: La chiusura percutanea del PFO è generalmente associata ad un basso tasso di complicanze a lungo termine, stimate intorno al 2.6%. Tali condizioni, seppur rare, devono essere sistematicamente ricercate, specialmente se associate alla comparsa di sintomi. Tra le complicanze a lungo termine si evidenziano la persistenza di shunt, le aritmie atriali, l’embolizzazione del device stesso, i processi endocarditici, l’erosione delle pareti aortiche, la perforazione delle camere cardiache con versamento pericardico, fino al possibile tamponamento cardiaco.

Flavio G. Biccirè: E qual è il ruolo della terapia medica?
M. Zimarino: La singola terapia antiaggregante riveste un ruolo cardine nell’ambito della prevenzione secondaria di un evento ischemico cerebrale acuto, sia esso PFO-relato o meno, indipendentemente dal trattamento di chiusura del PFO. La terapia anticoagulante rappresenta una valida alternativa all’antiaggregazione in presenza di concomitanti indicazioni a tale tipo di terapia come la fibrillazione atriale, la trombosi venosa profonda, l’embolia polmonare o la presenza di una protesi valvolare meccanica. Nei pazienti sottoposti a chiusura percutanea del PFO è raccomandata generalmente la doppia terapia antiaggregante per ridurre gli eventi tromboembolici correlati all’impianto del device, stimati intorno a 1-2% per 1-6 mesi dopo la procedura; dopo i primi 6 mesi dal trattamento percutaneo viene invece presa in considerazione la singola terapia antiaggregante.

Flavio G. Biccirè: Concludendo la chiusura di PFO può essere indicata nei pazienti con stroke e caratteristiche anatomiche/cliniche di alto rischio?
M. Zimarino: Nei pazienti con alta probabilità che lo stroke sia correlato alla presenza del PFO e di ricorrenza di eventi ischemici, la chiusura del PFO deve essere presa in considerazione; si raccomanda invece un’approfondita valutazione clinica in quei pazienti con probabilità intermedia in modo da individuare la migliore strategia di trattamento, in accordo anche con il paziente stesso. Nei pazienti con basse probabilità di correlazione PFO-stroke e di ricorrenza potrebbe essere valutata anche una strategia di trattamento con sola terapia antitrombotica. Ricordiamo che i benefici derivanti dalla chiusura del PFO vanno ampiamente e scrupolosamente soppesati con quelle che sono anche le possibili seppure rare complicanze procedurali.