Quale dose di aspirina in pazienti con malattia aterosclerotica?
di Filippo Brandimarte -
09 Giugno 2021

La patologia aterosclerotica resta una delle più frequenti cause di malattia e l’assunzione di aspirina è raccomandato in questi pazienti per ridurre il rischio di eventi avversi. (1) Quale dosaggio impiegare però è ancora oggetto di dibattito dal momento che i dati provenienti dagli studi osservazionali, analisi post hoc di studi randomizzati e trial controllati sono discordanti. (2-5) A tal proposito illuminante è il dato proveniente dal National Cardiovascular Data Registry del 2014: più del 60% dei pazienti dimessi dopo un infarto miocardico era trattato con 325 mg di aspirina ma era presente una estrema variabilità tra i centri partecipanti di un fattore che arrivava a 25. (6) Sebbene le linee guida ESC forniscano chiare indicazioni sull’uso dell’aspirina a basso dosaggio in pazienti stabili, la controparte statunitense non raccomanda un dosaggio preferito, lasciando di fatto margini di discrezionalità al medico curante che necessariamente dovrà valutare nel singolo caso il rischio trombotico e quello emorragico. (7-9)

Nel tentativo di chiarire la migliore strategia terapeutica è stato disegnato il trial multicentrico, randomizzato e controllato ADAPTABLE condotto dall’aprile 2016 al giugno 2019 su 15.076 pazienti con malattia aterosclerotica nota assegnati 1:1 all’assunzione di aspirina 81 mg (n=7540) o 325 mg (n=7536) al giorno e sottoposti a visite a 3 o 6 mesi fino al completamento del follow-up medio che è stato di 26.2 mesi. (10) L’outcome primario di efficacia dello studio è stato un composito di morte per ogni causa, ricovero per infarto miocardico e ricovero per ictus. L’outcome primario di sicurezza è stato invece il ricovero per sanguinamento maggiore che ha richiesto emotrasfusione.

L’età media dei pazienti è stata di 67.6 anni, 68.7% dei quali di sesso maschile. Il 35.3% dei pazienti aveva avuto un pregresso infarto e il 53% una rivascolarizzazione coronarica nel 5 anni precedenti l’arruolamento. Il 96% dei pazienti era già in trattamento con aspirina giornalmente e di questi l’85.3% assumeva la dose di 81 mg, il 2.3% 162 mg e il 12.2% 325 mg. 3081 pazienti (22.3%) assumeva inibitori P2Y12 (nel 92.5% dei casi clopidogrel). L’outcome primario di efficacia si è verificato in 590 pazienti (7.28%) nel gruppo aspirina 81 mg e in 569 (7.51%) pazienti nel gruppo aspirina 325 mg (HR: 1.02; 95% CI: 0.9-1.14). L’evento morte per ogni causa si è verificato in 315 pazienti nel gruppo aspirina 81 mg e in 357 pazienti nel gruppo 325 mg (HR: 0.87; 95% CI, 0.75-1.01). Similmente i ricoveri per infarto miocardico e ictus sono stati sostanzialmente uguali nei 2 bracci di trattamento. L’outcome primario di sicurezza si è verificato in 53 pazienti (0.63%) nella coorte aspirina 81 mg e in 44 pazienti (0.60%) nella coorte aspirina 325 mg (HR: 1.18; 95% CI: 0.79-1.77). L’interruzione del trattamento si è verificato nel 7% dei pazienti assegnati al gruppo aspirina 81 mg e nell’11.1% dei pazienti assegnati al dosaggio aspirina 325 mg mentre lo switch di trattamento da una dose all’altra si è verificato nel 7.1% dei pazienti che assumevano aspirina 81 mg e in ben 41.6% di quelli che assumevano aspirina 325 mg (con una forbice di divergenza che si è verificata precocemente dopo la randomizzazione), di conseguenza il numero medio di giorni di esposizione alla dose 325 mg è stato significativamente inferiore rispetto a quello del dosaggio più basso (434 vs 650 giorni).

In questo ampio trial quindi non sono emerse differenze significative negli outcome di efficacia e sicurezza tra la strategia farmacologica con 81 mg e 325 mg di aspirina in pazienti con malattia aterosclerotica nota. È interessante notare che nel braccio con il dosaggio più alto di aspirina si sono registrati molti switch al dosaggio più basso e più interruzioni di trattamento rispetto al braccio con il dosaggio di 81 mg, suggerendo quest’ultimo dosaggio come preferibile in termini di efficacia, sicurezza e aderenza al trattamento e di fatto introducendo al tempo stesso un bias di selezione potenzialmente non trascurabile. La discrezionalità introdotta dalle linee guida statunitensi al contrario di quelle europee, tuttavia, è la spia che ancora non è possibile dare una risposta definitiva sul miglior trattamento in pazienti stabili e comunque suggerirebbe di prendere almeno in considerazione l’opportunità di individualizzare il trattamento antiaggregante in base al rischio trombotico ed emorragico stimato derivanti dalle eventuali comorbidità di un paziente. È noto infatti che la popolazione diabetica, ad esempio, presenta una aterosclerosi accelerata e pertanto potrebbe beneficiarsi di un trattamento antiaggregante più aggressivo come anche la popolazione di pazienti con profilo lipidico non a target. Viceversa il paziente molto anziano con patologia oncologica o con insufficienza renale avanzata presenta un rischio emorragico più elevato e potrebbe essere ragionevole un regime di antiaggregazione più blando.

Bibliografia

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