Processo alla ricerca della vitalità del miocardio
di A. Battagliese intervista Leonardo Bolognese
02 Marzo 2024

Battagliese: Gentilissimo dottore la vitalità miocardica è ancora un tema molto attuale e discusso. Lei cosa ne pensa?

Bolognese: Per definizione il miocardio vitale è la porzione di muscolo cardiaco vivo, non morto. Tuttavia in ambito clinico tale concetto è solitamente riferito all’area di miocardio disfunzionante in condizioni di riposo la cui contrattilità è attesa migliorare dopo rivascolarizzazione1. Sono stati descritti due meccanismi di disfunzione ischemica reversibile: il miocardio stordito ed il miocardio ibernato. Il miocardio stordito è stato definito come una prolungata disfunzione ventricolare post-ischemica che si verifica dopo brevi episodi di ischemia non letale2. Questo fenomeno è caratterizzato dalla transitoria disfunzione del ventricolo sinistro comunemente osservata dopo un infarto miocardico acuto rivascolarizzato precocemente. Il miocardio ibernato si riferisce invece al meccanismo di protezione messo in atto dalle cellule miocardiche mediante soppressione delle funzioni metaboliche cellulari per favorire la sopravvivenza dei miociti in condizioni di riduzione critica del flusso sanguigno, innescata da eventi ischemici subentranti3. L’ibernazione rappresenta pertanto un substrato di disfunzione contrattile reversibile; la conseguente deduzione logica è che un miglioramento della funzione migliora la prognosi e che la valutazione della vitalità miocardica nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra ischemica (DVSI) è un prerequisito fondamentale che condiziona le scelte terapeutiche e in particolare la decisione di procedere alla rivascolarizzazione miocardica.

Battagliese: Qual è il ruolo della valutazione della vitalità nel guidare la rivascolarizzazione?

Bolognese: Attualmente il razionale della valutazione preoperatoria della vitalità miocardica è largamente basato sul concetto che la rivascolarizzazione di un miocardio disfunzionante ma ancora vitale si associa ad un miglioramento della sopravvivenza dei pazienti con DVSI come risultato di un recupero della contrattilità con contestuale miglioramento della frazione di eiezione (FE) del ventricolo sinistro. Tale “ipotesi della vitalità” è stata supportata da una serie di studi retrospettivi. In una meta-analisi di 24 studi osservazionali, coinvolgente 3088 pazienti con DVSI e significativa estensione di miocardio vitale, la rivascolarizzazione si associava ad una riduzione del 79.6% della mortalità per anno rispetto alla terapia medica, ad un follow-up medio di appena 25 mesi4. Tuttavia la metanalisi si riferiva a studi osservazionali, non randomizzati, in aperto, caratterizzati da numerosi fonti di pregiudizio statistico e da una notevole eterogeneità metodologica, precludendo l’accettazione di questi dati aggregati quale dimostrazione o conferma conclusiva di una reale correlazione tra i risultati dello studio di vitalità e beneficio della rivascolarizzazione.

Battagliese: Dottore pensa che alla luce dei recenti dati di letteratura può ancora considerarsi valido il paradigma classico secondo cui la rivascolarizzazione, in presenza di vitalità miocardica, determina favorevolmente la prognosi di pazienti con disfunzione ventricolare sinistra?

Bolognese: Recenti evidenze in letteratura non sembrerebbero confermarlo. Studi recenti suggeriscono che tale fenomeno potrebbe essere determinato da un’estrema semplificazione del problema. In particolare, alcuni importanti studi prospettici randomizzati hanno messo in discussione l’ipotesi della vitalità.

Lo studio PARR-2 (PET and Recovery Following Revascularization)5 ha randomizzato i pazienti con DVSI a trattamento invasivo mediante rivascolarizzazione guidata dalla dimostrazione di vitalità mediante tomografia ad emissione di positroni (PET) o al trattamento standard senza PET. Sulla base del risultato della PET veniva posta una raccomandazione, ma la decisione finale veniva presa dai medici cui erano in carico i pazienti. L’analisi primaria non dimostrava un significativo beneficio per i pazienti sottoposti a rivascolarizzazione PET-guidata5. Tuttavia un’analisi post-hoc, condotta valutando solo i pazienti in cui vi era congruità tra strategia terapeutica eseguita e risultato della PET, includendo solo centri con particolare esperienza, ha dimostrato risultati migliori per i pazienti sottoposti a rivascolarizzazione PET-guidata6. Tuttavia si tratta di un’analisi retrospettiva a fronte dello studio madre sostanzialmente negativo.

Lo studio HEART (Heart Failure Revascularization Trial) ha randomizzato pazienti con evidenza di vitalità miocardica a trattamento conservativo o coronarografia seguita da rivascolarizzazione dove indicata7. Lo studio è stato interrotto prematuramente per assenza di beneficio in termini di mortalità per il gruppo dei pazienti rivascolarizzati. Tuttavia, la dimensione del campione era sottodimensionata per dimostrare con adeguata potenza statistica l’obiettivo primario.

La sotto-analisi sulla vitalità dello studio STICH era stata disegnata in modo prospettico per valutare l’interazione tra la presenza di miocardio vitale e il beneficio della rivascolarizzazione. Circa la metà dei pazienti arruolati è stato valutato con tecniche non invasive8. Nonostante la conferma del beneficio in termini di sopravvivenza della rivascolarizzazione, non è stata dimostrata una rilevante interazione tra estensione del miocardio vitale e beneficio della rivascolarizzazione, sia a 5 che a 10 anni di follow-up9. Inoltre, sebbene la presenza di miocardio vitale fosse associata a un lieve aumento della FE (+2.29±0.56%) a lungo termine, ciò non si correlava al trattamento assegnato né aveva un impatto sulla sopravvivenza complessiva9. I risultati dello studio STICH sulla vitalità miocardica sono stati pertanto dirompenti per due motivi: per non aver dimostrato una correlazione diretta tra presenza di vitalità e beneficio della rivascolarizzazione e per l’assenza di correlazione tra miglioramento della funzione contrattile e gli esiti clinici. Tuttavia i risultati meritano un’analisi critica. Il test di vitalità era obbligatorio solo nella fase iniziale dello studio mentre successivamente era a discrezione dei clinici che gestivano i pazienti. Lo studio non era randomizzato ed il protocollo di imaging impiegato per la valutazione della vitalità era disomogeneo [per esempio sono state ammesse 5 diverse modalità di esecuzione della tomografia ad emissione di fotone singolo (SPECT)] con parametri per definire la vitalità piuttosto permissivi9. Le caratteristiche basali dei pazienti inclusi nella sotto-analisi della vitalità, così come il trattamento medico ed interventistico, erano differenti rispetto alla popolazione principale dello studio e non erano rappresentative della popolazione generale affetta da DVSI. È molto probabile che pazienti con dimostrata positività al test di vitalità, cosi come quelli senza evidenza di vitalità, non siano stati arruolati, indirizzandoli pertanto direttamente a strategia interventistica, i primi, e strategia conservativa i secondi (soltanto il 19% dei pazienti dello studio STICH non aveva segni di vitalità dimostrata). Infine, un’alta percentuale di pazienti sottoposti al test di vitalità miocardica (25,3%) aveva una malattia coronarica monovasale, probabilmente reperto accidentale e non direttamente correlato alla disfunzione ventricolare, con scarsa probabilità di beneficio mediante rivascolarizzazione.

Anche la sotto-analisi sulla vitalità miocardica dello studio REVIVED-BCIS2 (Revascularization for Ischemic Ventricular Dysfunction) ha mostrato l’assenza di correlazione tra estensione di miocardio vitale o non vitale e l’effetto della rivascolarizzazione percutanea (PCI) per ognuno degli obiettivi pre-specificati10. L’estensione della vitalità miocardica espressa in terzili, indipendentemente dalla definizione di vitalità, non ha evidenziato alcun gruppo con un minor rischio di mortalità o ospedalizzazione per scompenso cardiaco, né tantomeno un gruppo con miglior recupero della FE. Tuttavia nei pazienti sottoposti a valutazione mediante risonanza magnetica cardiaca (CMR), pari al 70% di tutta la popolazione arruolata (il 26% aveva invece eseguito ecocardiogramma da stress alla Dobutamina ed il 4% aveva eseguito PET/SPECT), l’estensione dell’area cicatriziale rappresentava un potente fattore predittivo di esito. Per ogni aumento del 10% dell’estensione dell’area necrotica vi era un aumento proporzionale del rischio di morte o ospedalizzazione per insufficienza cardiaca, indipendentemente dai valori di partenza di FE (HR 1.18; 95% CI [1.04–1.33]; p<0.01)10. Al contrario non vi era correlazione tra FE, corretta per l’estensione della cicatrice, ed eventi. Sebbene in questo studio la vitalità sia stata considerata come variabile continua e non dicotomica, è necessario precisare alcune limitazioni. La concordanza tra vasi sottoposti a PCI e i segmenti di miocardio vitale non è stata ancora determinata. Lo studio principale aveva una potenza insufficiente per rilevare la riduzione attesa del rischio relativo (RRR) pari al 30%, e la sotto-analisi ha utilizzato dati provenienti solo dall’87% della popolazione arruolata. La possibilità che si tratti di pazienti con DVSI multifattoriale o con DVS non ischemica e malattia coronarica coincidente è piuttosto elevata. Il periodo di follow-up è breve. L’esclusione dei pazienti senza miocardio vitale impedisce di poter generalizzare tali risultati all’intero continuum della vitalità. Infine, contrariamento allo studio STICHES, dove la presenza di miocardio vitale si associava ad aumento della FE tuttavia senza correlazione tra aumento della FE e riduzione della mortalità a lungo termine, nel REVIVED non vi era associazione tra rivascolarizzazione del miocardio vitale e recupero della FE. È importante precisare che entrambe le sotto-analisi sono di piccole dimensioni con significative limitazioni metodologiche, rispecchiando le enormi sfide affrontate dai ricercatori. Tuttavia gli studi sono coerenti e mettono in discussione il concetto di ibernazione miocardica, poiché entrambi non ha riscontrato un chiaro beneficio nell’impiego dei test di vitalità nel guidare le decisioni terapeutiche o nell’influenzare l’incidenza degli eventi fatali.

Battagliese: Ciò significa che l’ipotesi di vitalità non ha alcun correlato clinico? Quali sono allora i meccanismi di beneficio e gli obiettivi terapeutici della rivascolarizzazione?

Bolognese: Rispondere a tale domanda non può prescindere dagli obiettivi terapeutici della rivascolarizzazione miocardica. È certamente possibile che esista una reale correlazione biologica tra vitalità e rivascolarizzazione miocardica; tuttavia, la complessità degli aspetti fisiopatologici alla base del potenziale beneficio terapeutico della rivascolarizzazione non può essere dedotta dai risultati di un singolo test di vitalità miocardica, soprattutto se espressi in modo dicotomico (vale a dire, pazienti che hanno o non hanno vitalità). Fondamentale per la comprensione di tale relazione è il concetto di miglioramento della funzione sistolica dopo rivascolarizzazione. Il miglioramento della funzione sistolica è stato accettato, nello stesso tempo, come standard di riferimento per la valutazione della vitalità miocardica, come uno degli obiettivi terapeutici della rivascolarizzazione e come il meccanismo di miglioramento prognostico nei pazienti con DVSI1. In realtà, esistono evidenze contrastanti sul miglioramento della funzione ventricolare sinistra dopo rivascolarizzazione miocardica e sul suo effetto favorevole in termini prognostici nei pazienti affetti da DVSI1, 11. Popolazioni con DVSI mostrano cambiamenti solo modesti in termini di miglioramento della funzione ventricolare sinistra dopo rivascolarizzazione, almeno a breve termine: nello studio STICH il miglioramento medio della FE era del 2% a 4 mesi in un gruppo con “estesa vitalità” miocardica9. Tuttavia il mancato miglioramento della frazione di eiezione a riposo dopo rivascolarizzazione non è una prova di miocardio non vitale1, 11 e può essere spiegato da molteplici fattori, tra cui la definizione di vitalità (che non sempre richiedeva la presenza di disfunzione contrattile), la tipizzazione del segmento disfunzionante (a sua volta dipendente da una combinazione variabile di miocardio cicatrizzato e ibernato), la presenza di vitalità dei soli strati sub-epicardici con cicatrice sub-endocardica, e fattori procedurali come qualità, completezza e durabilità della rivascolarizzazione cosi come il grado di danno miocardico peri-procedurale9, 11, 12.

D’altro canto la presenza di un’estesa area vitale ha dimostrato di predire la risposta alla terapia farmacologica13 e al trattamento di resincronizzazione miocardica14, e la stessa vitalità miocardica può indicare un substrato miocardico soggetto a un miglioramento in risposta ad una serie di interventi, non soltanto la rivascolarizzazione. Tuttavia entrambi i sotto-studi dello STICH9 e del REVIVED-BCIS10 hanno dimostrato che l’estensione della vitalità del miocardio non è associata alla sopravvivenza libera da eventi e alla probabilità di miglioramento della funzione ventricolare sinistra, suggerendo che il miglioramento nella frazione di eiezione a riposo non è l’unico obiettivo e non deve essere lo scopo principale da perseguire per migliorare gli esiti dopo la rivascolarizzazione.

Il recupero funzionale del ventricolo sinistro, quindi, non dovrebbe più essere considerato il meccanismo critico che condiziona gli esiti clinici dopo la rivascolarizzazione. È possibile, infatti, che la prevenzione di ulteriori danni miocardici, la protezione del miocardio vitale residuo da futuri eventi coronarici acuti e la prevenzione di morti cardiache improvvise dovute ad aritmie ventricolari fatali contribuiscano in modo più significativo al miglioramento dei risultati clinici15, come suggerito dall’analisi dell’etiologia degli eventi fatali nei pazienti inclusi nello studio STICH16. La rivascolarizzazione assicura la stabilità, elettrica e funzionale dei miociti che, indipendentemente dal miglioramento della contrattilità del ventricolo sinistro, è in grado di prevenire ulteriori eventi ischemici ed aritmici15. Questo effetto terapeutico potrebbe essere teoricamente esteso anche ai pazienti senza dimostrata vitalità miocardica, come suggerito da una recente meta-analisi che ipotizza un beneficio della rivascolarizzazione rispetto alla terapia medica nei pazienti con DVSI nonostante l’assenza di vitalità miocardica17.

Considerando che l’obiettivo più importante della rivascolarizzazione chirurgica potrebbe non essere legato al recupero della funzione sistolica, ma piuttosto alla prevenzione di ulteriori danni, è naturale pensare che il BPAC, fornendo protezione contro la potenziale rottura di placche anche non limitanti il flusso, possa risultare superiore rispetto ad un trattamento tipicamente focale come la PCI18. Questa differenza fondamentale tra BPAC e PCI potrebbe spiegare la discrepanza nell’efficacia della rivascolarizzazione tra gli studi STICH e REVIVED-BCIS2 e rafforza i risultati dei precedenti registri non randomizzati nei pazienti con DVSI19. Indiscutibilmente, abbiamo bisogno di studi aggiuntivi per avere risposte più precise su come identificare i pazienti che potrebbero beneficiare della rivascolarizzazione miocardica e su come eseguirla al meglio.  Recentemente è stato avviato uno studio internazionale (STICH-3) per determinare se il BPAC sia superiore alla PCI in termini di mortalità totale nei pazienti con grave malattia coronarica e disfunzione sistolica del ventricolo sinistro20.

Battagliese: Quale potrebbe essere allora un paradigma più contemporaneo ?

Bolognese: I pazienti con DVSI spesso si presentano con scenari clinici complessi e impegnativi. La valutazione dell’estensione della vitalità miocardica appare ancora opportuna nell’algoritmo decisionale al fine di misurare l’estensione assoluta e relativa della componente cicatriziale e di miocardio ibernato vitale, soprattutto per guidare un’eventuale scelta conservativa.

Se da un lato i pazienti con dimostrata vitalità miocardica ai test non invasivi sono i candidati ideali per il BPAC, quelli senza vitalità richiedono un approccio più attento e personalizzato considerando la totalità dei fattori che influenzano il processo decisionale.

Questi fattori includono non solo i risultati dei test funzionali, ma anche l’estensione anatomica della malattia coronarica e miocardica, nonché la corrispondenza regionale tra la disfunzione segmentale del ventricolo sinistro e la probabilità di successiva rivascolarizzazione delle arterie coronarie corrispondenti.

Sebbene non siano state affrontate adeguatamente negli studi clinici, tali argomentazioni sono cruciali nel processo decisionale sul singolo paziente, così come lo è la completezza della rivascolarizzazione. Pertanto la valutazione della vitalità miocardica non dovrebbe focalizzarsi su un’analisi quantitativa della sua estensione per classificare i pazienti in maniera dicotomica, con e senza miocardio vitale, ma piuttosto sulla corrispondenza anatomica tra aree vitali e fattibilità della rivascolarizzazione coronarica, specialmente in casi dove il rischio perioperatorio rende le decisioni particolarmente difficili.

Recentemente è stato proposto un paradigma più contemporaneo della rivascolarizzazione miocardica nei pazienti affetti da DVSI, integrando la valutazione della vitalità miocardica con tali variabili, accessorie ma essenziali1 .

Infine, la presenza di importanti comorbilità quali l’età avanzata, il grado di insufficienza mitralica, la disfunzione renale e la fragilità sono determinanti importanti nel processo decisionale riguardante l’indicazione a rivascolarizzazione chirurgica, soprattutto considerando l’eccesso di rischio precoce associato alla chirurgia.

La valutazione della vitalità miocardica conserva ancora un ruolo cruciale nella valutazione di scenari clinici solitamente complessi per giungere alla migliore decisione terapeutica per ciascun paziente. L’ipotesi della vitalità è ancora viva.

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18Panza JA Assessment of myocardial viability in ischemic cardiomyopathy – Scarred by the data but still alive JAMA Cardiol Published online October 25, 2023

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