Non far di tutta l’erba un fascio: stratificazione prognostica nella cardiomiopatia dilatativa
di Vittoria Rizzello
07 Giugno 2022

Il termine di  cardiomiopatia dilatativa (CMD) identifica il fenotipo dilatato di un insieme molto eterogeneo di cardiomiopatie che riconoscono eziologie estremamente diverse tra loro (genetiche, tossiche, infiammatorie, metaboliche, ambientali) e manifestazioni cliniche differenti (aritmie e/o scompenso cardiaco) che comportano una variabile risposta alla terapia. Per quanto negli ultimi anni la prognosi di questi pazienti sia migliorata, grazie all’implementazione di nuove strategie terapeutiche, questa condizione rappresenta ancora la principale indicazione per il trapianto cardiaco ed è associata a una mortalità del 20% a 5 anni (1).

La stratificazione prognostica di questi pazienti però è ancora insoddisfacente e nella pratica clinica mancano strumenti che ci consentano di discriminare in maniera accurata quali sono i pazienti che avranno una prognosi peggiore e su cui probabilmente è necessario ricercare una terapia eziologica/meccanicistica mirata che abbia maggiori possibilità di successo. 

Nell’ultimo numero di JACC, è stato pubblicato un interessante e innovativo lavoro di Tayal U e coll (2), in cui attraverso un approccio di “machine learning” è stata effettuata una fenotipizzazione multiparametrica di un’ampia popolazione di pazienti con CMD allo scopo di identificare differenti sottotipi di CMD con specifici pattern di fattori di rischio, specifiche manifestazioni cliniche e differenti outcome che possano facilitarne la stratificazione prognostica e guidare la terapia.

La coorte di derivazione del modello era costituita da 426 pazienti (2/3 maschi, età mediana 56 anni) con diagnosi di CMD confermata alla risonanza magnetica cardiaca (RMC) con late gadolinium enhancement (LGE), arruolati prospetticamente tra il 2009 e il 2015 presso il Royal Brompton Hospital di Londra. In questi pazienti sono stati valutati oltre ai tradizionali dati demografici, clinici ed elettrocardiografici anche i dati di RMC-LGE,  le sequenze di 169 geni coinvolti nella CMD e ben 276 biomarkers in aggiunta a troponina ad alta sensibilità e creatinina.  La coorte di validazione esterna del modello è stata rappresentata da 239 pazienti con diagnosi di CMD alla RMC-LGE, inclusi in un  registro olandese sulle cardiomiopatie tra il 2009 e il 2016, in cui è stata effettuata la medesima fenotipizzazione clinica, genetica, bioumorale e di imaging.  

I pazienti sono stati seguiti per un follow-up mediano di 4 anni nella coorte di derivazione e di 3 anni nella coorte di validazione. L’end-point primario composito nell’analisi della sopravvivenza è stato rappresentato  dall’insieme di morte cardiovascolare, aritmie maggiori e ospedalizzazioni per scompenso cardiaco/trapianto di cuore/impianto di device di assistenza ventricolare.

Dei molteplici parametri analizzati, 21 (6 di CMR, 5 bioumorali e 10 clinici), si sono rivelati utili al fine di definire 3 nuovi fenogruppi di CMD nella coorte di derivazione.  Il fenogruppo 1 (249 pazienti), definito “mild-nonfibrotic subtype”, era caratterizzato da: prevalenza del genere femminile, classe NYHA I, assenza di disfunzione ventricolare destra,  lieve disfunzione ventricolare e rimodellamento atriale, bassi livelli di biomarkers e assenza di fibrosi alla RMC-LGE. Il fenogruppo 2 (124 pazienti) , definito “profibrotic metabolic subtype”  era caratterizzato dalla prevalenza di diabete (20%), dalla maggiore frequenza di tachicardia ventricolare, da una classe NYHA II, da un maggiore grado di disfunzione e rimodellamento sinistro rispetto al fenogruppo 1 e dalla costante (100% dei pazienti) presenza di “midwall fibrosis” alla RMC-LGE. Il fenogruppo 3 (27 pazienti), definito “biventricular impairment subtype” era caratterizzato da coinvolgimento biventricolare, prevalente classe NYHA III-IV e più elevati livelli di troponina I hs, NT-pro-BNP e creatinina ma ridotta presenza (22% dei pazienti) di fibrosi alla RMC-LGE.

Nei 3 fenogruppi è stata osservata una prognosi progressivamente peggiore dal fenogruppo 1 al fenogruppo 3. L’aggiunga del fenogruppo migliorava il potere predittivo di diversi modelli basati sulle singole variabili cliniche, bioumorali e di imaging.

La fenotipizzazione nella popolazione di validazione è stata effettuata utilizzando, per una più facile applicazione clinica, solo 5 variabili selezionate (ossia il volume telesistolico ventricolare sinistro e destro indicizzato, il volume atriale sinistro indicizzato, la midwall fibrosi al LGE e la creatinina). Anche nella coorte di validazione sono stati identificati i 3 differenti fenogruppi sopradescritti con differenti profili di rischio, dimostrando la fattibilità e la potenziale utilità nella pratica clinica di tale modello di stratificazione nella CMD.

Considerazioni.

Il lavoro di Tayal U e coll è, a mio parere,  particolarmente interessante in primo luogo perché dimostra in maniera molto chiara che le CMD non sono tutte uguali e che dei cluster fenotipici specifici identificano categorie di pazienti differenti con profili di rischio differenti, in cui le strategie terapeutiche da implementare potrebbero essere diverse. In particolare, il fenogruppo definito “mild nonfibrotic”  sembra identificare una categoria di pazienti con un profilo di rischio molto basso (con una sopravvivenza a 6 anni >95%) in cui la terapia medica ottimale potrebbe rappresentare la scelta terapeutica ideale. Per contro, il fenotipo “metabolic profibrotic” presenta un profilo di rischio significativamente più alto (sopravvivenza di circa l’80%), caratterizzato dalla costante prevalenza di midwall fibrosi che potrebbe  giustificare in questi pazienti l’intervento con strategie finalizzate alla prevenzione della morte improvvisa (ICD) e dello scompenso refrattario (impianto precoce di device di assistenza ventricolare). Infine, il fenotipo “biventricular impairment” identifica un sottogruppo di pazienti con una prognosi particolarmente infausta (sopravvivenza di circa il 60%), tipica della fase avanzata della malattia, in cui gli interventi terapeutici a nostra disposizione difficilmente possono risultare in un significativo miglioramento della prognosi.

Un altro elemento di interesse è rappresentato dall’ipotesi che i 3 fenotipi possano  sottendere meccanismi eziopatogenetici differenti e non rappresentare semplicemente fasi progressive  della stessa patologia.  Il simile intervallo dalla diagnosi di CMD nei 3 fenotipi  e la scarsa presenza di fibrosi nel fenotipo “biventricular impairment” sembrerebbero supportare questa ipotesi. In particolare, nel fenogruppo “biventricular impairment” potrebbe essere presente una tipologia più aggressiva di fibrosi, ossia  quella interstiziale, che il LGE non identifica e richiede analisi di T1-mapping. Precedenti studi hanno infatti documentato il valore prognostico negativo del T1-mapping nei pazienti con CMD (3).  Ulteriori studi che approfondiscano questa ipotesi sono auspicabili.

Un dato sorprendente nello studio è l’apparente ininfluenza della genetica nella definizione dei 3 fenotipi. Ciò può essere però dovuto al fatto che nelle popolazioni dello studia, la quasi totalità delle mutazioni osservate riguardava esclusivamente il gene della titina.  Pertanto,  è possibile che in popolazioni differenti anche la genetica possa avere un ruolo e possa consentire una fenotipizzazione ancora più dettagliata.

Infine, è interessante notare, come un modello molto complesso, che ha analizzato alcune centinaia di variabili in un approccio di “machine learning”, sia stato semplificato in sole 5 semplici variabili, di comune riscontro nella pratica clinica, per consentirne la validazione in una popolazione esterna e dimostrarne l’applicabilità sulla popolazione generale dei pazienti con CMD. Questo sforzo degli autori è particolarmente apprezzabile perché la semplicità di applicazione è indubbiamente un requisito essenziale per qualsiasi metodo proposto per la stratificazione del rischio nella pratica clinica quotidiana. 

REFERENCES

  1. Merlo M, Cannatà A, Pio Loco C, Stolfo D, Barbati G, Artico J, Gentile P, De Paris V, Ramani F, Zecchin M, Gigli M, Pinamonti B, Korcova R, Di Lenarda A, Giacca M, Mestroni L, Camici PG, Sinagra G. Contemporary survival trends and aetiological characterization in non-ischaemic dilated cardiomyopathy. Eur J Heart Fail. 2020;22:1111-1121. 
  2. Tayal U, Verdonschot JAJ, Hazebroek MR, Howard J, Gregson J, Newsome S, Gulati A, Pua CJ, Halliday BP, Lota AS, Buchan RJ, Whiffin N, Kanapeckaite L, Baruah R, Jarman JWE, O’Regan DP, Barton PJR, Ware JS, Pennell DJ, Adriaans BP, Bekkers SCAM, Donovan J, Frenneaux M, Cooper LT, Januzzi JL Jr, Cleland JGF, Cook SA, Deo RC, Heymans SRB, Prasad SK. Precision Phenotyping of Dilated Cardiomyopathy Using Multidimensional Data. J Am Coll Cardiol. 2022 ;79:2219-2232.
  3. Puntmann VO, Carr-White G, Jabbour A, Yu CY, Gebker R, Kelle S, Hinojar R, Doltra A, Varma N, Child N, Rogers T, Suna G, Arroyo Ucar E, Goodman B, Khan S, Dabir D, Herrmann E, Zeiher AM, Nagel E; International T1 Multicentre CMR Outcome Study. T1-Mapping and Outcome in Nonischemic Cardiomyopathy: All-Cause Mortality and Heart Failure. JACC Cardiovasc Imaging. 2016;9:40-50.