Manifestazioni di “long COVID”. La  sindrome della tachicardia ortostatica posturale (POTS)
di Filippo Stazi
06 Aprile 2021

La sindrome della tachicardia ortostatica posturale (POTS) è un condizione clinica complessa e di cui si conosce ancora poco. Tale patologia affligge soprattutto donne giovani e caucasiche, con una prevalenza che negli Stati Uniti oscilla tra 500.000 e 3 milioni di persone. La sindrome, inoltre, sta recentemente emergendo come una delle manifestazioni cliniche del cosiddetto long COVID. I pazienti con POTS presentano un ampio spettro di sintomi debilitanti. Dopo il passaggio dalla posizione supina alla stazione eretta i soggetti presentano un incremento della frequenza cardiaca (FC) di circa 30 battiti/minuto (bpm). Questo aumento è accompagnato dalla comparsa di sensazione di testa leggera, palpitazioni, dispnea, mal di testa, difficoltà di concentrazione, presincope. Il ritorno alla posizione supina allevia i sintomi e molti soggetti divengono alla fine allettati. Nel complesso questa condizione causa un’astenia estrema che riduce la capacità dei pazienti di mantenersi in piedi e di svolgere le comuni attività quotidiane, al punto che il 25% di questi soggetti diviene inabile al lavoro. Tutto ciò, ovviamente, si ripercuote sulla capacità funzionale e sulla qualità di vita dei pazienti e molti individui sviluppano concomitanti forme di ansia e depressione.

La POTS è una condizione eterogenea di cui si riconoscono 5 differenti sottotipi: 1) iperadrenergico, 2) neuropatico, 3) ipovolemico, 4) legato all’ipermobilità articolare e 5) immuno mediato, che sono in realtà spesso tra loro sovrapposti. Il sottotipo più comune, quello iperadrenergico, è responsabile di circa la metà delle forme ed è caratterizzato da un’anomala attivazione del sistema nervoso simpatico. L’organismo è in una costante condizione di “scappa o combatti” che conduce ad un’elevata FC ed ad una ridotta perfusione degli organi. In questa forma i livelli di norepinefrina (NE) sia in clino- (405 pg/ml) che in ortostatismo (1.200 pg/ml) sono significativamente elevati rispetto alla popolazione sana (200 e, rispettivamente, 500 pg/ml).

Il trattamento della POTS è deludente per la scarsità di opzioni terapeutiche a disposizione. Non vi sono infatti farmaci con raccomandazioni di classe I e quelli che vengono attualmente consigliati, come midodrina e fludrocortisone, sono solo in classe IIb. Beta-bloccanti e calcio-antagonisti, capaci di ridurre la FC sono spesso controindicati per il loro effetto ipotensivo, anche in considerazione della non trascurabile frequenza di episodi presincopali. L’ivabradina è una possibile speranza di trattamento per questi pazienti in quanto ha la peculiare capacità, bloccando i canali I funny del nodo del seno, di ridurre la FC senza agire sulla pressione arteriosa (PA). Al momento tale farmaco, però, sebbene considerato in classe IIa per la terapia della tachicardia sinusale inappropriata, non è incluso nelle linee guida per il trattamento della POTS (1) poiché le sue potenzialità in tale contesto clinico sono state mostrate solo da studi piccoli o da case reports. Su JACC è stato però finalmente pubblicato un primo studio randomizzato, sia pure di casistica limitata, che ha confrontato l’ivabradina col placebo in pazienti con la forma iperadrenergica di POTS (2).

Criteri di esclusione dallo studio erano la presenza di una FC a riposo < 60 bpm, la presenza di fibrillazione atriale o tachicardia sopraventricolare, la gravidanza o l’allattamento. Il precedente utilizzo di farmaci ad effetto cronotropo (beta-bloccanti e calcio-antagonisti) non era criterio di esclusione ma doveva essere sospeso almeno 7 giorni prima dell’arruolamento. Al momento dell’inclusione nello studio si eseguiva la valutazione dei parametri vitali ortostatici (misurazione di FC e PA dopo 3 minuti di clinostatismo e 3 minuti di ortostatismo), un Tilt Test (considerato positivo se si verificava un incremento della FC di almeno 30 battiti e se comparivano sintomi di intolleranza ortostatica) ed il dosaggio della norepinefrina (sia dopo 15 minuti in posizione supina che dopo altrettanti minuti di ortostatismo). Tale dosaggio veniva poi ripetuto alla fine sia del ciclo di trattamento con l’ivabradina che con il placebo. Dopo la randomizzazione i pazienti ricevevano 5 mg, due volte al giorno, di ivabradina o placebo per 4 settimane. Dopo 2 e 4 settimane si ripeteva la valutazione dei parametri vitali ortostatici. Al termine delle 4 settimane i pazienti venivano sottoposti a 7 giorni di wash out per poi passare all’altro braccio di trattamento (da ivabradina a placebo o viceversa) per un ulteriore mese. Alla fine di ogni periodo di trattamento veniva valutata, mediante la compilazione di un questionario (SF-36) la qualità di vita.

22 dei 26 pazienti randomizzati hanno concluso il trial. Uno si è ritirato durante l’assunzione del placebo per motivi aspecifici, 3 invece hanno abbandonato la sperimentazione mentre erano in terapia con l’ivabradina per la comparsa, rispettivamente, di nausea e sonnolenza (dopo 3 giorni di assunzione), fosfeni (dopo 4 giorni) ed astenia (dopo 21 giorni). Tutti effetti collaterali tipici della terapia con ivabradina. Nessun paziente ha presentato invece peggioramento dei sintomi da POTS.  La maggioranza di questi 26 soggetti presentava la POTS da almeno 1 anno, il 30% aveva storia di presincope, 5 pazienti presentavano disturbi da ansia/panico,  3 avevano un quadro ansioso-depressivo ed 1 era affetto da sindrome depressiva.

La terapia con l’ivabradina riduceva significativamente sia il valore di FC in ortostatismo (77,9 bpm vs 95,1 bpm all’inclusione e 94,2 bpm col placebo) che il delta di FC tra clinostatismo ed ortostatismo (13,1 bpm vs 21,4 bpm e 17 bpm). Nessun paziente ha sperimentato bradicardia o ipotensione durante il trattamento col farmaco e tutti hanno riferito un significativo miglioramento della qualità di vita. I livelli di NE, infine, sia da sdraiati che in piedi, presentavano una riduzione ai limiti della significatività statistica, verosimile espressione di una downregulation del sistema nervoso simpatico.

Le due principali limitazioni dello studio risiedono nella breve durata del trattamento (un mese) e nel limitato numero dei pazienti arruolati. Va però ricordato che la scarsa numerosità del campione è più incline a fornire risultati falsamente negativi piuttosto che positivi e che quindi il risultato del presente trial appare comunque attendibile. Lo studio, inoltre, si è focalizzato sul solo sottotipo iperadrenergico della POTS e quindi i risultati non sono generalizzabili alle altre forme della malattia.

Pur tenendo conto delle limitazioni succitate, lo studio merita particolare attensione perché mostra la prima evidenza randomizzata dell’efficacia dell’ivabradina nei pazienti affetti da POTS, offrendo così  una nuova opzione terapeutica destinata ad arricchire lo scarno armamentario disponibile per la gestione di questa patologia. L’altro aspetto di rilievo fornito dal trial, anche se necessitante di ulteriori conferme, è che il benefico effetto dell’ivabradina è ottenuto sia mediante un effetto cronotropo diretto che, forse, anche grazie a una downregulation del sistema nervoso simpatico, come mostrato dal calo dei livelli di NE, il che per la prima volta suggerisce tale downregulation come possibile bersaglio terapeutico di questa condizione clinica.

 

Bibliografia

 

  • Sheldon RS, Grubb BP 2nd, Olshansky B et al. 2015 heart rhythm society expert consensus statement on the diagnosis and treatment of postural tachycardia syndrome, inappropriate sinus tachycardia and vasovagal syncope. Heart Rhythm 2015; 12: e41-63.
  • Taub PT, Zadourian A, Lo HC et al. Randomized trial of ivabradine in patients with hyperadrenergic postural orthostatic tachycardia syndrome. J Am Coll CArdiol 2021; 77: 861-871.