L’IPERTENSIONE, QUESTA SCONOSCIUTA
di Eligio Piccolo
11 Dicembre 2018

Sconosciuta un corno! Direbbero e giustamente gli illustri ipertensivologi, molti di essi italiani (da Zanchetti a Dal Palù e Mancia) che da 70 anni si sono prodigati con studi su popolazioni in tutto il mondo, con ricerche sui fattori causali, sulle terapie sempre più efficaci e addirittura sfruculiando nei cromosomi all’individuazione dei geni responsabili. Dai quali infatti sono riusciti a individuare qualche centinaio di alleli responsabili dello sviluppo di pressione alta. E qui dobbiamo fare una pausa di sospensione per complimentarci e dar loro ragione: è stato un progresso medico incredibile, cui dobbiamo anche il calo di malattie e l’alzo di vivibilità. Constatando ad un tempo che nonostante quei meravigliosi progressi la pressione alta mantiene ancora un 10% di rischio per ogni causa di mortalità nei popoli sviluppati.

Va ricordato a questo punto che quando si cominciò a setacciare la pressione nelle varie popolazioni del mondo civile (anni ’50-’60 del secolo scorso) si constatò con sorpresa che negli adulti dopo i venti anni l’incidenza era elevata, circa un quarto era iperteso; che trasferito ai criteri più restrittivi di ora (120 di massima su 80 di minima) raggiunge sicuramente oltre un terzo. Non solo, ma la percentuale aumentava a valori preoccupanti nelle età avanzate; mentre i pediatri segnalavano che anche tra i loro pazienti ve n’erano molti con presupposti seri di diventare ipertesi, specie se erano in sovrappeso e con pedigree predisponente. Una constatazione quindi impressionante se pensiamo che emerge da un silenzio di milioni di anni, durante i quali non era dato di misurare la pressione.

Lo “sconosciuta”, infatti, ci viene soprattutto dalla considerazione storica che questo principio idraulico della nostra circolazione, benché intuito da tempo, fu scoperto solo nel ‘700 dall’inglese Hales, che ebbe la curiosità di pungere l’arteria di una cavalla e vedere fino a quale altezza nel tubo di vetro collegato all’ago la colonna di sangue saliva. Fu un ulteriore incentivo a curare i pletorici che rischiavano il coccolone mediante i salassi, l’unico rimedio per quei tempi, ma perdurante fino alla seconda guerra mondiale, assieme alle sanguisughe e ad altri palliativi. Se a ciò si aggiunge che la possibilità di misurare la pressione, senza farci martoriare le arterie, fu possibile solo agli inizi del ‘900 con l’apparecchio a mercurio del nostro Riva Rocci, l’aggettivo sconosciuta diviene ancora più che appropriato.

E lo è maggiormente se, come hanno fatto i nostri valenti ricercatori da 70 anni ad oggi, indaghiamo sui fattori che fanno aumentare la pressione fino a farla diventare una malattia, quei fattori che verosimilmente hanno modificato nel tempo anche le nostre prerogative genetiche. Essi sono ben conosciuti e rammentati ad ogni piè sospinto quando ci rivolgiamo ai pazienti da curare: il sovrappeso, una condotta di vita psicologicamente ansiosa, l’eccesso di sale nei cibi e una scarsa attività fisica, per citare solo i principali. Fattori che hanno una certa correlazione con le modificazioni ereditarie o genetiche, come se attraverso i millenni il nostro organismo avesse inserito nel proprio codice genetico le cattive abitudini acquisite.
Forse, ad essere finalisti e ottimisti, affinché il nostro organismo possa mettere in atto una specie di difesa immunitaria, come per le malattie infettive. Finora però una specifica difesa fisiologica non è stata individuata, se non forse considerando certe popolazioni a pressione bassa che, trasferite da habitat più naturali nella nostra civiltà convulsa, hanno rivelato alcune difficoltà di adattamento.

Lo studio che ha fatto riemergere questi problemi di adattamento della pressione arteriosa alle nostre abitudini di vita (peccaminose quelle del nostro mondo occidentale e virtuose quelle di realtà primitive) è apparso in Circulation del febbraio 2018 ad opera di due centri di ricerca inglese e greco, condotti da Raha Pazoki. Dal quale si dimostra che le 314 varianti genetiche responsabili dell’aumento della pressione di 277.005 ipertesi sono ben correlate con tale aumento e con le malattie cardiovascolari conseguenti, ma anche con le nostre abitudini scorrette (obesità, sale, ansia, alcol, fumo, pigrizia), che con termine elegante definiamo stile di vita. E che, pur non avendo uno stretto rapporto con le 314 modificazioni genetiche, sono ugualmente ben correlate con le malattie derivanti. Ne consegue, secondo tale ricerca, che non è necessario scomodare i genetisti per calcolare i rischi dell’ipertensione, è sufficiente interrogare i pazienti e confidare nella loro sincerità.

I vantaggi ottenuti durante questi ultimi 70 anni, grazie ai controlli sempre più facili della pressione, perfino attuati dal paziente stesso, alle terapie sempre più efficaci, nonostante lo stile di vita non sia radicalmente cambiato e un quarto degli ipertesi non sappia di esserlo mentre un terzo non si cura, i vantaggi, dicevo, in termini di maggiore durata della vita, sono di almeno 20 anni. Ai quali vanno aggiunti quelli dovuti alla cura delle malattie cardiovascolari, in parte conseguenti alla pressione alta e in parte no, che ne aggiungono quasi altrettanti.

Il tutto però è ben lontano dal poter essere considerato un ripristino di longevità quale esisteva, secondo la Bibbia, ai tempi di Matusalemme e di Enoch, gli antenati di Noè, quando ancora non c’erano alcol e fumo, né l’alimentazione disordinata dei nostri giorni. Ma a questo punto il discorso si fa difficile perché usciamo dalle conoscenze scientifiche, l’unico mezzo che abbiamo per capire i nostri limiti e le direttive da seguire, affinché l’ipertensione divenga sempre meno sconosciuta.
Lo stesso Alexis Carrel, il Nobel della chirurgia nel 1912 che raccomandava di usare l’osservazione più del ragionamento nel valutare “l’uomo questo sconosciuto”, si era poi lasciato trasportare verso ideali poco scientifici e troppo trascendenti.

Eligio Piccolo
Cardiologo