L’insufficienza mitralica post infarto: confronto tra modalità di trattamento conservativo, chirurgico e percutaneo.
di Filippo Brandimarte
21 Settembre 2021

L’insufficienza mitralica (IM) a seguito di un infarto acuto del miocardio (IMA) è una temibile condizione che si può verificare come risultato della rottura ischemica di un muscolo papillare (condizione che richiede spesso un trattamento chirurgico urgente) o a causa del rapido rimodellamento dell’area infartuata che determina uno spostamento solitamente apicale ed inferiore dello stesso (patogenesi secondaria). (1) Tale complicanza è spesso associata ad instabilità emodinamica (edema polmonare, fino allo shock cardiogeno) e ad una cattiva prognosi. Infatti, circa il 12% di tutti gli IMA con ST sopraslivellato si accompagna ad IM moderata o severa a 30 giorni con tassi di mortalità che raggiungono il 24% a 30 giorni e 50% ad 1 anno. (2) Purtroppo molti di questi pazienti sono spesso giudicati ad altissimo rischio o addirittura non candidabili alla chirurgia valvolare e vengono pertanto trattati in modo conservativo. Sebbene sino a pochi anni fa l’unica opzione possibile fosse la chirurgia, oggi il trattamento percutaneo attraverso il posizionamento di una MitraClip rappresenta una nuova soluzione meno invasiva, sicuramente poco applicata  nel  setting acuto.

Recentemente sono apparsi sull’European Heart Journal i risultati di un interessante ed ampio studio condotto in 21 centri (Nord America, Europa e zone dell’est) che ha arruolato, tra dicembre 2009 e marzo 2020 con un follow-up medio di 239 giorni, 471 pazienti con IM moderata-severa o severa entro 90 giorni da un IMA (sia con ST sopraslivellato che non sopraslivellato). Lo studio ha previsto il confronto di 3 tipologie di trattamento: conservativa (n=266), chirurgica (RMC, riparazione o sostituzione valvolare, n=106) o percutanea (RMP, n=99). (3) L’eziologia della IM è stata valutata accuratamente tramite esame ecocardiografico ed i pazienti che presentavano rottura del papillare sono stati esclusi dallo studio dal momento che questo subset di soggetti ha prognosi e trattamenti diversi. Tutti i centri partecipanti erano in grado di effettuare tutte le strategie di trattamento, avendo una comprovata esperienza. L’endpoint primario era la mortalità intraospedaliera per tutte le cause, mentre endpoint secondari includevano il successo procedurale immediato, la mortalità ad 1 anno, la stima ecocardiografica dell’IM e della pressione in arteria polmonare e la classe NYHA. Endpoint di sicurezza erano le complicazioni procedurali e periprocedurali (IMA, stroke, tamponamento cardiaco, reintervento per fallimento della procedura, insufficienza renale che richiedeva trattamento dialitico, setticemia o il ricorso a trasfusione di almeno 2 unità di emazie).

L’età media dei pazienti è stata di 73 anni, il 43% era di sesso femminile, il 38% aveva diabete mellito ed il 26% aveva avuto un precedente IMA. I soggetti nel braccio di trattamento conservativo erano più anziani (75 vs 70 anni, p<0.01) mentre quelli nei 2 bracci RMC e RMP avevano più spesso una coronaropatia multivasale (77% vs 65%, p=0.02), un precedente IMA (34% vs 20%, p<0-01), una presentazione clinica con shock cardiogeno (41% vs 30%, p=0.01) ed un rischio chirurgico più elevato (EUROSCORE II 10% vs 8%, p<0.01). Confrontando i pazienti nei 2 bracci sottoposti ad intervento, i soggetti RMP erano più anziani (71 vs 68 anni, p=0.03), con una prevalenza più alta di eventi cardiaci (IMA pregresso 56% vs 14%, precedente rivascolarizzazione 27% vs 1%, P<0.01) e condizioni cliniche più gravi. Lo shock cardiogeno era presente rispettivamente nel 51% vs 31%, la frazione di eiezione media era rispettivamente del 35% vs 45%, il coinvolgimento della parete anteriore era rispettivamente del 36% vs 21%, p<0.01). Analizzando i pazienti nel braccio RMC, il 57% dei soggetti è stato sottoposto a sostituzione valvolare ed il restante 43% a riparazione valvolare. L’82% dei soggetti è stato contemporaneamente sottoposto a rivascolarizzazione tramite bypass ed il 3% a procedure per concomitanti ulteriori valvulopatie. Nonostante la maggiore gravità del quadro clinico dei pazienti RMP, la procedura percutanea è stata effettuata più tardivamente rispetto al braccio RMC (19 vs 12 giorni, p>0.01). Sebbene il successo procedurale immediato sia stato alto in entrambe i gruppi RMC e RMP, le complicazioni maggiori periprocedurali sono state più frequenti  nel gruppo RMC (34% vs 6%, p<0.01). Come prevedibile, le coorti RMC e RMP hanno avuto una marcata riduzione dell’insufficienza mitralica ed un miglioramento della classe NYHA. Solo nel gruppo RMP però si è ottenuta una riduzione significativa anche della pressione polmonare (da 54 a 43 mmHg, p<0.01). La mortalità intraospedaliera era più alta nel braccio di trattamento conservativo (27%) rispetto agli altri 2 gruppi (11%, p<0.01). Dopo opportuno aggiustamento per l’età, la classe Killip e l’uso di supporto circolatorio meccanico il trattamento conservativo è stato associato ad un aumentato rischio di mortalità intraospedaliera (OR 4.52, 95% CI 2.18-5.73, p<0.01). Risultati analoghi sono stati ottenuti anche dopo applicazione del propensity score. Similmente, all’analisi di regressione il trattamento conservativo è stato associato ad un aumento di rischio di mortalità ad 1 anno (HR 2.14, 95% CI 1.51-3.02, p<0.001).

Inoltre la mortalità intraospedaliera è stata significativamente più alta nel gruppo RMC rispetto a quella nel gruppo RMP (16% vs 6%, p<0.01) e tale significatività si è mantenuta anche ad 1 anno (31% vs 17%, p=0.04). All’analisi di regressione il trattamento chirurgico (RMC) è stato associato ad un più alto rischio di mortalità ad 1 anno rispetto al gruppo percutaneo (RMP)  (HR 2.45, 95% CI 1.09-5.50, p=0.03) indipendentemente dai valori di EUROSCORE II.

Lo studio presentato è probabilmente il più ampio attualmente pubblicato in questa particolare coorte di pazienti e consente confrontare i 3 differenti approcci di trattamento dell’IM post IMA. Il dato che emerge abbastanza prepotentemente è quello per cui i pazienti trattati conservativamente hanno la prognosi peggiore con una mortalità intraospedaliera del 27% e quella ad 1 anno del 36%. Appare anche chiaro che la mortalità periprocedurale del gruppo RMC è alta arrivando al 15% (25% nel gruppo con alto EUROSCORE II) e ovviamente dovuta all’instabilità emodinamica, alle complicazioni del concomitante rivascolarizzazione tramite bypass (effettuata in oltre 80% dei casi) e alla potente terapia antiaggregante vista la recente sindrome coronarica acuta. Altro aspetto interessante e che, considerato il beneficio in termini di sopravvivenza intraospedaliera e ad 1 anno, la modalità di trattamento percutaneo sembra rappresentare un’opzione terapeutica di salvataggio percorribile per i pazienti ad alto rischio chirurgico (pregresso intervento di rivascolarizzazione tramite bypass, Classe Killip ≥3, soggetti sottoposti a ventilazione meccanica) anche nel setting acuto. Le indicazioni alla procedure di RMP potrebbero essere estese anche a questo sottogruppo di pazienti che altrimenti avrebbero poche chances di sopravvivenza.

Bibliografia

  1. Pierard LA, Carabello BA. Ischaemic mitral regurgitation: pathophysiology, outcomes and the conundrum of treatment. Eur Heart J 2010;31:2996–3005.
  • Sannino A, Grayburn PA. Ischemic mitral regurgitation after acute myocardial infarction in the percutaneous coronary intervention era. Circ Cardiovasc Imaging 2016;9:e005323.

  • Haberman D, Estevez-Loureiro R et al. Conservative, surgical, and percutaneous treatment for mitral regurgitation shortly after acute myocardial infarction. Eur heart J 2021;00:1-11.