L’INIBIZIONE DEL FATTORE XI NEI PAZIENTI CON SINDROME CORONARICA ACUTA
di Lorenzo Scalia intervista Davide Capodanno
01 Marzo 2024

Scalia: Buongiorno Prof. Capodanno e benvenuto a questa 41ª edizione di Conoscere e Curare il Cuore. La ringraziamo per averci concesso un po’ del suo tempo per affrontare questa intervista riguardante un “hot-topic” tanto innovativo quanto intrigante, da lei presentato durante la seconda giornata congressuale. Ma facciamo un passo indietro: qual è il ruolo del fattore XI all’interno della cascata emocoagulativa?

Capodanno: Il FXI è uno zimogeno che può essere convertito da altri fattori della coagulazione in una serina proteasi che ne rappresenta la forma attiva (FXIa). Esso svolge un ruolo cruciale nella via di contatto della coagulazione che riconosce vari fattori tra i suoi trigger di attivazione (e.g. il contatto con materiali estranei quali circuiti extracorporei, cateteri vascolari, valvole meccaniche). A livello molecolare, invece, i principali responsabili sono i polianioni esogeni, in grado di indurre l’autoattivazione del fattore XII, che rappresenta il principale attivatore del FXI. Quest’ultimo, a sua volta, avvia una serie di reazioni biochimiche che culminano nella conversione della protrombina in trombina, enzima capace di retroattivare il FXI attraverso un meccanismo di feedback positivo, alimentando il processo coagulativo. La retroattivazione del FXI da parte della trombina è anche alla base dell’attivazione di questo fattore conseguentemente all’innesco della via del fattore tissutale. Quest’ultima è tipicamente avviata da un danno della parete vascolare ed è coinvolta nel processo di emostasi col fine principale di porre termine al sanguinamento mediante la formazione di un tappo emostatico. Nella trombosi patologica, il FXI gioca un ruolo di rilievo nell’amplificare i fenomeni di accrescimento e sviluppo del trombo, mentre risulta presentare un ruolo secondario nei processi d’emostasi.

Scalia: Quali sono ad oggi i risvolti farmacologici inerenti alla molecola?

Capodanno: Il ruolo marginale giocato dal FXI nell’emostasi ha incentivato il tentativo farmacologico di dissociare questo processo dalla trombosi attraverso l’inibizione di tale fattore. Questo razionale ha condotto, dunque, allo sviluppo ed all’identificazione di composti in grado di inibire questa molecola. Quasi tutte le molecole sono già state oggetto di studi sull’uomo. Gli ambiti di ricerca includono principalmente la prevenzione del tromboembolismo venoso dopo chirurgia ortopedica maggiore, lo stadio terminale della malattia renale cronica, la fibrillazione atriale, lo stroke non cardio embolico e, non per ultimo, le ACS.
In particolare, nel contesto della prevenzione del tromboembolismo venoso nei pazienti sottoposti ad artroplastica totale del ginocchio, i trial di fase 2 hanno evidenziato un buon profilo di sicurezza oltre che una promettente efficacia dei composti testati rispetto ad enoxaparina. Anche nei pazienti con fibrillazione atriale gli inibitori del FXI hanno mostrato in trial di fase 2 di essere dei farmaci sicuri, tanto che lo studio AZALEA-TIMI 71, è stato interrotto precocemente per il riscontro di una significativa riduzione degli eventi emorragici con l’abelacimab rispetto a rivaroxaban. Tuttavia, rimane la questione dell’efficacia, che deve essere ancora dimostrata da uno studio di fase 3, sottolineando come uno studio di questo tipo dell’inibitore del FXI orale asundexian, intitolato OCEANIC-AF è stato interrotto precocemente per futilità.

Scalia: Focalizzando la nostra attenzione sulle sindromi coronariche acute, quali sono le attuali evidenze cliniche riguardo l’utilizzo di farmaci anticoagulanti in questo contesto?

Capodanno: Sebbene la DAPT costituisca oggi lo standard-of-care nella prevenzione secondaria dell’infarto del miocardio, è doveroso precisare come tale strategia non sia in grado di annullare il rischio di eventi ischemici ricorrenti. La persistenza di tale rischio ha stimolato la comunità scientifica ad esplorare nuovi approcci farmacologici mediante l’utilizzo combinato di antiaggreganti ed anticoagulanti. Numerosi trial condotti negli ultimi anni hanno esaminato l’utilizzo dei DOACs in aggiunta alla terapia antipiastrinica, sia in contesti cronici che in contesti acuti. Tra questi, lo studio APPRAISE-2 ha testato apixaban 5 mg bid in aggiunta alla singola o doppia antiaggregazione in pazienti con ACS ad alto rischio trombotico dimostrando di aumentare notevolmente il rischio emorragico senza, tuttavia, ridurre gli eventi ischemici. I risultati del trial ATLAS-ACS 2 TIMI 51, invece, hanno evidenziato che basse dosi di rivaroxaban (2.5 mg bid), quando aggiunte alla DAPT sono in grado di ridurre il tasso di eventi cardiovascolari di natura ischemica al costo, tuttavia, di un maggior rischio di sanguinamenti maggiori ed intracranici.

In linea teorica, dunque, l’uso di un DOAC in aggiunta alla terapia antiaggregante può comportare un beneficio sul rischio trombotico, ma questo effetto potrebbe essere strettamente dipendente dallo specifico farmaco e dalla tipologia di infarto (risultano più efficaci in caso di STEMI piuttosto che di NSTEMI). Attualmente, rivaroxaban al dosaggio di 2.5 mg bid è l’unico farmaco della sua categoria ad essere stato approvato in associazione con un antipiastrinico (aspirina), nella coronaropatia stabile e nell’arteriopatia periferica in assenza di alto rischio emorragico, oltre che nelle ACS.

I dati messi a disposizione dai trial APPRAISE-2 e ATLAS-ACS 2 TIMI 51, complessivamente, ribadiscono come il tentativo di associare in sicurezza un anticoagulante alla DAPT resti ancora oggi in gran parte velleitario, e di fatto poco usato, a causa dell’aumentato rischio di sanguinamento.

Scalia: Come possono essere utilizzati i nuovi farmaci inibitori del fattore XI nel setting delle ACS e quali sono le attuali evidenze scientifiche?

Capodanno: Attualmente, le prove relative all’impiego dei nuovi anticoagulanti inibitori del FXI nei pazienti affetti da ACS sono limitate; il trial PACIFIC-AMI è uno studio multicentrico di fase 2, randomizzato, in doppio cieco, che ha valutato la farmacodinamica, la sicurezza e l’efficacia di tre differenti dosi di asundexian (rispettivamente 10 mg, 20 mg e 50 mg qd) paragonate con placebo in aggiunta alla DAPT in pazienti in prevenzione secondaria dopo ACS. Un totale di 1.601 pazienti è stato, dunque, randomizzato in quattro differenti gruppi (1:1:1:1), entro cinque giorni dal ricovero ma, comunque, successivamente all’eventuale intervento coronarico percutaneo; nella popolazione dello studio sono stati esclusi soggetti affetti da diatesi emorragica, sanguinamenti attivi, o con storia di sanguinamento maggiore nei sei mesi precedenti. L’endpoint primario di sicurezza consisteva nel composito di sanguinamenti di tipo BARC 2-3-5 mentre l’endpoint primario di efficacia era costituito dal numero di partecipanti con composito di morte cardiovascolare, infarto del miocardio ricorrente, stroke (ischemico o emorragico) or trombosi dello stent ad una durata media del follow up di 368 giorni. Asundexian ha dimostrato un’inibizione efficace del FXIa con un’azione dose-dipendente, riducendo l’attività di quest’ultimo a livelli superiori al 90% con la dose di 50 mg. Tuttavia, l’endpoint primario di sicurezza non ha evidenziato differenze significative in termini di sanguinamenti tra il farmaco oggetto di studio e il placebo. L’endpoint di efficacia, invece, ha riguardato eventi che abbiano coinvolto in valore assoluto una quantità inferiore di soggetti al crescere della dose di farmaco impiegata; bisogna però precisare che non sono state individuate differenze significative in termini di efficacia tra le varie posologie di asundexian, e tra queste e il placebo. Inoltre, è emersa una diminuzione numericamente più marcata nell’outcome primario di efficacia tra i pazienti affetti da STEMI rispetto a quelli con NSTEMI.

I dati emersi dallo studio clinico PACIFIC-AMI sono promettenti in merito alla sicurezza di asundexian. Tali risultati necessitano, comunque, di ulteriori conferme mediante un ampio trial di fase 3, il quale dovrebbe candidare la dose di 50 mg e contemplare una popolazione più eterogenea, includendo i pazienti a rischio elevato di sanguinamento.

Nel frattempo, si attendono con interesse i risultati relativi a milvexian in aggiunta alla terapia antiaggregante standard-of-care in questo specifico setting clinico, nel trial LIBREXIA-ACS, per i quali, tuttavia, bisognerà pazientare fino al 2026.

Scalia: Cosa ci aspetta nell’ambito delle ACS in futuro da questi farmaci?


Capodanno:
Il futuro potrebbe aprire le porte a nuovi studi su molecole inibitrici del FXI non ancora esplorate in questo setting clinico. Rimangono innanzitutto aperte tante questioni pratiche: a quanti farmaci antipiastrinici andrebbe associato l’inibitore del FXI o FXIa? Per quanto tempo, e a che dose? La notevole variabilità farmacologica e posologica di tali composti potrebbe, inoltre, rivelarsi di cruciale importanza, consentendo un adattamento del trattamento anticoagulante alle specifiche esigenze di ciascun paziente. Ad esempio, l’impiego di farmaci con breve emivita e rapida insorgenza d’azione (tra cui, in particolare, l’anticorpo monoclonale xisomab 3G3) potrebbe dimostrarsi vantaggioso nel periodo peri-operatorio, mentre composti con lunga emivita potrebbero favorire una maggiore aderenza nelle terapie a lungo termine (come nel caso di abelacimab e dell’oligonucleotide antisenso IONIS-FXIRX); gli studi sull’utilizzo degli anticoagulanti inibitori del FXI nelle ACS si trovano ancora in una fase iniziale; tuttavia, suggeriscono un potenziale che, se confermato, potrebbe comportare un significativo miglioramento della prognosi per questi pazienti attraverso la riduzione degli eventi ischemici ricorrenti.