Negli anni 80 la mortalità intraospedaliera nei pazienti con infarto miocardico acuto superava il 10%, pertanto l’utilizzo della mortalità come unico endpoint negli studi clinici era più che giustificato. (1) Tuttavia, con l’introduzione e la diffusione della rivascolarizzazione coronarica precoce negli anni 90 si è assistito ad un progressivo e significativo abbattimento di questo endpoint portando la comunità scientifica, in prima fila Eugene Braunwald e collaboratori, a proporre nel 1992 endpoint compositi per valutare l’efficacia di nuove terapie nell’infarto miocardico. (2) Questo approccio però, sebbene sicuramente più moderno, nel tempo ha creato nuove problematiche ancora oggi irrisolte, fra cui quella di come attribuire “pesi” prognostici differenti ai singoli componenti dell’endpoint composito per evitare ad esempio di attribuire ad un infarto miocardico non fatale la stessa rilevanza di infarto fatale oppure ad un ictus senza grossi deficit motori lo stesso di quello con emiparesi invalidante. (3) Ancora, la presenza di più definizioni riconosciute valide dello stesso componente può portare ad interpretazioni dei dati molto differenti come accade per la definizione di infarto miocardico (attualmente arrivati alla quarta declinazione) e la sua classificazione in 5 sottotipi. (4)
Lo studio EXCEL, pubblicato 2 anni fa, ha confrontato l’approccio chirurgico e percutaneo per la rivascolarizzazione della discendente anteriore. E’ stato probabilmente il primo grande trial a dimostrare l’impatto di varie definizioni di infarto periprocedurale (IPP) sulla prognosi. Mentre l’utilizzo del solo deciso innalzamento del CK-MB come unico parametro non dimostrava alcuna differenza fra i 2 approcci di rivascolarizzazione, quando veniva applicata la terza definizione universale dell’infarto miocardico (l’ultima disponibile allora, che utilizzava anche modesti aumenti della troponina ultrasensibile uniti ad evidenza di ischemia miocardica), emergeva una forte correlazione tra mortalità e rivascolarizzazione chirurgica. Non si osservava invece una correlazione tra la mortalità e l’angioplastica coronarica percutanea (PTCA). (5) Questa importante disparità ha spinto Ueki e colleghi a condurre un interessante studio retrospettivo, pubblicato sull’ultimo numero del Journal of the American College of Cardiology, su 4252 pazienti con coronaropatia stabile candidati ad angioplastica coronarica e arruolati tra il 2010 e 2018 nel registro CARDIOBASE. Lo studio ha valutato l’incidenza di IPP utilizzando 4 diverse definizioni ad oggi riconosciute: la terza definizione universale di infarto miocardico (3UD), la quarta definizione universale di infarto miocardico (4UD), la definizione della Academic Research Consortium (ARC-2) e da ultimo la definizione della Society for Cardiovascular Angiography and Interventions (SCAI). Inoltre, è stata stimata la mortalità ad 1 anno nei 4 gruppi nel tentativo di verificare quale definizione avesse il peso prognostico più rilevante (endpoint primario). Criteri di esclusione dello studio sono stati l’indisponibilità di misurazioni seriate della troponina ultrasensibile, ECG, angiografia e procedure concomitanti alla rivascolarizzazione (ad es. sostituzioni valvolari aortiche percutanee). Tutti i pazienti durante la procedura di angioplastica sono stati trattati con eparina, mentre l’utilizzo di inibitori IIb/IIIa è stato lasciato a discrezione dell’operatore. Tutti i pazienti sono stati pretrattati con doppia antiaggregazione con aspirina ed inibitore P2Y (nella maggioranza dei casi clopidogrel). I livelli di troponina ultrasensibile sono stati dosati entro 6 ore prima della procedura, da 4 a 6 ore dopo la procedura ed eventualmente ulteriori determinazioni ogni 6-8 ore in caso di aumento significativo dei valori. L’ECG è stato effettuato prima della rivascolarizzazione, entro 6 ore dopo angioplastica e alla dimissione. (6)
I pazienti con IPP, indipendentemente dalla definizione utilizzata, avevano un’età più elevata e più fattori di rischio cardiovascolare, più comorbidità ed un più alto grado di complessità delle lesioni coronariche. L’aumento assoluto dei valori di troponina rispetto al basale è stato modesto in 1859 soggetti (42.2%) ovvero inferiore ad 1 volta il limite alto di normalità, rilevante ma contenuto in 1489 pazienti (33.8%) ovvero da 1 a 5 volte il limite alto di normalità, significativo in 93 soggetti (2.1%) ovvero da 35 a 70 volte il limite alto di normalità ed infine eccezionale in 86 pazienti (2.0%) ovvero superiore a 70 volte il limite alto di normalità. Per quanto concerne i criteri ancillari di IPP, tra i 1790 pazienti che avevano aumenti dei livelli di troponina ultrasensibile che soddisfacevano i criteri di tutte le 4 differenti definizioni, 663 (37%) rientravano nei criteri angiografici della 3 e 4 UD, 207 (11,6%) rientravano nei criteri angiografici ARC-2, 2013 (11.9%) hanno sviluppato nuove alterazioni ischemiche all’ECG, 13 (0.7%) hanno sviluppato nuove onde Q patologiche, 4 (0.2%) ha sviluppato un blocco di branca sinistro e 133 (7.4%) aveva sintomi suggestivi per ischemia miocardica. L’IPP è stato più frequente applicando la 3UD (18%) e la 4UD (14.9%) rispetto alle definizioni ARC-2 (2.0%) e SCAI (2.0%). Inoltre, i pazienti nei due ultimi gruppi avevano una più alta frequenza di criteri ancillari. Un aumentato rischio di morte cardiaca ad 1 anno è stato osservato in tutti e 4 i gruppi sebbene utilizzando la definizione ARC-2 e SCAI tale rischio è risultato più alto: 3UD (no infarto vs infarto. 1,4% vs 2.9%, p=0.003), 4UD (1.4% vs 3.0%, p=0.004), ARC-2 (1.6% vs 5.8%, p=0.004) e SCAI (1.5% vs 10%, p<0.001). Dopo analisi multivariata tutti gli IPP erano indipendentemente associati a morte cardiaca ad 1 anno: 3UD HR 1.76; 95% CI: 1.04-3.00 p=0.030, 4UD HR 1,93; 95% CI: 1.11-3-37 p=0.020, ARC-2 HR 3,90; 95% CI: 1.54-9.93 p=0.004, SCAI HR 7.66; 95% CI: 3.64-16.11 p<0.001. Infine, aumenti assoluti di troponina ultrasensibile più di 35 e 70 volte il limite alto di normalità da soli sono risultati più accurati e specifici sebbene meno sensibili rispetto ad un aumento di sole 5 volte il limite alto di normalità. Aggiungendo i criteri ancillari ad un aumento di 5 o più volte il limite alto di normalità si è documentato un aumento della accuratezza e della specificità con una riduzione di sensibilità particolarmente applicando le definizioni ARC-2 e SCAI, sebbene il valore incrementale dei criteri ancillari si riduca al crescere dei cut-off della troponina ultrasensibile.
Sebbene questo trial abbia delle limitazioni (studio monocentrico, follow-up solo di 1 anno, unico marker di miocardionecrosi disponibile per tutti solo la troponina ultrasensibile), consente di fare almeno 2 importanti considerazioni:
- L’IPP definito da 3UD e 4UD è stato da 7 a 9 volte più frequente rispetto a quello definito con ARC-2 e SCAI. Questo è comprensibile dal momento che le prime due definizioni includono variazioni della troponina ultrasensibile anche modeste che potrebbero essere interpretate come piccoli IPP clinicamente non rilevanti come suggerito da un recente documento di consenso della Società Europea di Cardiologia in cui viene consigliato come cut-off accurato un valore superiore a 5 volte il limite alto di normalità. (7) È importante ricordare che includere nella diagnosi di IPP anche quelli non clinicamente rilevanti ha un impatto sui costi (esami strumentali addizionali, terapie farmacologiche e durata della degenza ospedaliera) oltre che ridurre la affidabilità dell’endpoint e l’interpretazione dei dati che ne derivano.
- I pazienti in cui si verifica un IPP, indipendentemente dalla definizione utilizzata, hanno un più alto rischio di eventi avversi ad 1 anno rispetto ai pazienti senza questa complicanza. Tuttavia, le definizioni 3UD e 4UD sono risultate avere un impatto prognostico inferiore rispetto alle definizioni ARC-2 e SCAI che identificano invece soggetti con aumenti non marginali dei valori di troponina ultrasensibile (>35 volte il limite alto di normalità) avendo sicuramente accuratezza e specificità maggiori. I criteri ancillari per IPP combinati con i valori di troponina ultrasensibile aumentano l’accuratezza e la specificità ma riducono la sensibilità.
Quale definizione abbia il miglior compromesso tra sensibilità e specificità è ancora oggetto di studio ma il contributo del lavoro di Ueki e collaboratori suggerirebbe l’importanza di escludere IPP non clinicamente rilevanti utilizzando cut-off per la troponina ultrasensibile più elevati utilizzando le definizioni ARC-2 e SCAI in soggetti con coronaropatia stabile candidati ad angioplastica coronarica.
Bibliografia
- Maggioni AP, Franzosi MG, Fresco C et al. GISSI trials in acute myocardial infarction. Rationale, design, and results. Chest. 1990;97:146s–150s
- Braunwald E, Cannon CP, McCabe CH. An approach to evaluating thrombolytic therapy in acute myocardial infarction. The ’unsatisfactory outcome’ end point. Circulation. 1992;86:683–687
- O’Fee K, Deych E, Ciani O et al. Assessment of nonfatal myocardial infarction as a surrogate for all-cause and cardiovascular mortality in treatment or prevention of coronary artery disease: a meta-analysis of randomized clinical trials. JAMA Intern Med. 2021;181(12):1575–1587
- Thygesen K, Alpert JS, Jaffe AS, et al. Fourth Universal Definition of Myocardial Infarction (2018). J Am Coll Cardiol. 2018;72:2231–2264
- Gregson J, Stone Gregg W, Ben-Yehuda O, et al. Implications of alternative definitions of periprocedural myocardial infarction after coronary revascularization. J Am Coll Cardiol. 2020;76:
1609–1621 - Ueki Y, Otsuka T, Bar S et al. Frequency and outcomes of periprocedural MI in patients with chronic coronary syndromes unfergoing PCI. J Am Coll Cardiol 2022;79:513-526
- Bulluck H, Paradies V, Barbato E, et al. Prognostically relevant periprocedural myocardial injury and infarction associated with percutaneous coronary interventions: a consensus document of the ESC Working Group on Cellular Biology of the Heart and European Association of Percutaneous
Cardiovascular Interventions (EAPCI). Eur Heart J. 2021;42:2630–2642