L’EVOLUZIONE DELL’UOMO E… DEGLI ANIMALI
di Eligio Piccolo
12 Novembre 2018

L’anello di congiunzione, il missing link dei neodarwiniani, el eslabon perdido degli ispanici, è quel misterioso punto di transizione dall’animale all’uomo, o meglio dalla scimmia ai successivi primati, che, secondo certe interpretazioni della teoria sull’evoluzione della specie di Darwin, dovrebbe dimostrane la discendenza.

Nelle varie ricerche fossili sui cercopitechi quel link non è stato mai individuato in modo convincente, però secondo le nuove interpretazioni esso non viene più considerato la chiave del problema. Soprattutto non ci aiuta a migliorare certi rapporti dell’uomo verso gli animali. Non tanto quelli dell’allevamento come cibo per i non vegetariani o come mezzo di locomozione, di difesa o di compagnia, quanto lo sfruttamento che se n’è fatto, soprattutto negli ultimi secoli, a favore della sperimentazione medica e per valutare le risposte ai farmaci. Questa pratica, che solo dal secolo scorso è diventata oggetto di una vera contestazione politica e umanitaria, ad eccezione del famigerato dottor Mengele, è antica quanto l’uomo. Che ha sempre cercato di vedere come funzionava da vivo il corpo di certi animali, l’orribile vivisezione, e anche come essi reagivano a determinate sostanze che avrebbero potuto avvelenare l’uomo. Alcuni tuttavia, come il cane e il gatto, sono diventati domestici e altri secondo alcune religioni perfino sacri. Pensiamo all’India, dove per la divinità Krishna la vacca è ancora oggi l’animale intoccabile.

Fu grazie a loro, e proprio alla mucca, se a partire dal XVIII secolo il medico naturalista inglese Edward Jenner riuscì a sperimentare il vaccino contro il vaiolo. E  se nel secolo seguente il microbiologo francese Louis Pasteur riuscì a individuare le cause del colera, del carbonchio e della rabbia. Contemporaneamente e successivamente molte altre scoperte su come funzionano i nostri organi, in che modo essi reagiscono ai microbi e ai virus, nonché ai farmaci, fino alla penicillina e ai trapianti di cuore, si sono potute realizzare grazie alla sperimentazione nei vari animali, piccoli come il topo e la cavia o grandi come il cane e la scimmia.

Quando andai a lavorare come apprendista nel laboratorio di elettrocardiografia di Sodi Pallares constatai che le conferme su quanto ci mostrava l’elettrocardiogramma clinico le potevamo avere solo verificandole nel cuore dei cani, anestetizzati e con il torace già aperto, che il tecnico Porfirio ci preparava la mattina prima del nostro intervento, cui seguiva purtroppo il sacrificio dell’animale. Ma fu in questo modo che Michel Mirowski, che in quell’Istituto aveva appreso i misteri dell’attività elettrica del cuore, anni dopo negli anni ’70 sperimenterà a sua volta nel cane il defibrillatore impiantabile, che oggi allunga la vita a milioni di pazienti nel mondo. Cosi come la allunga a molti di più fin dagli anni ’60 il pacemaker, anch’esso sperimentato dapprima nel cane. Il quale, volendo riconoscergli in qualche modo l’involontario ma nobile contributo alla scienza, agli inizi del ‘900 in Russia aveva “collaborato” con Ivan Petrovic Pavlov nella dimostrazione dei riflessi condizionati.

Quando nei primi anni universitari studiai anatomia fu grazie a un cuore di maiale, che un cugino mi regalò rinunciando a farne salsicce, se potei apprendere “sul campo” tutti i particolari descritti nei testi di Chiarugi e di Testut. Perché oltre al cane anche il maiale ci assomiglia molto in questo. L’addestramento del medico sugli animali era una prassi obbligatoria già dalla fine dell”800, in particolare per gli aspiranti chirurghi, che purtroppo lo dovevano fare in vivo, spesso con scarsa considerazione per le sofferenze dei “senz’anima”. Ricordo a questo proposito un noto chirurgo di Mestre, il professor Badile, famoso per la sua abilità nella chirurgia dell’addome, e che conobbi già molto anziano. Mi raccontò che quei risultati li aveva appresi nella Clinica Chirurgica di Padova grazie all’addestramento con i gatti. Il felino, diceva, noto per i suoi scatti e le rapide reazioni, li aveva anche nelle budella, che appena toccate con la pinza o il bisturi immediatamente si strizzavano, sicché separarle e suturarle necessitava di particolare addestramento e perizia, che gli vennero poi utili nell’operare appendiciti od occlusioni intestinali nell’uomo.

Non conosciamo i dati italiani sulle esercitazioni con gli animali nelle nostre Università, perché come sempre da noi variano a macchia di leopardo, da ateneo ad ateneo e non rientrano nelle statistiche interessanti. Negli USA invece, secondo un riscontro eseguito nel 1989, il 90% dei medici doveva addestrarsi nei laboratori con gli animali. Fortunatamente da allora si stanno cercando altre vie, come quelle di sempre minori danni e sofferenze agli animali e dell’impiego al loro posto di simulatori artificiali; sicché quella percentuale è scesa al 18% nella sperimentazione in fisiologia e in farmacologia, e fino al 5% per la clerkship degli aspiranti chirurghi.

Pare che l’ultimo baluardo universitario degli Stati Uniti che ha rinunciato all’uso di animali vivi nel curriculum medico sia stato quello del Tennessee College of Medicine in Chattanooga. Che a noi ricorda solo una vecchia e spensierata canzoncina del dopoguerra, suonata da Glenn Miller, la “Chattanooga choo choo”.

Eligio Piccolo
Cardiologo