La terapia anticoagulante anche nella fibrillazione atriale di breve durata? I risultati dello studio ARTESIA
di Filippo Brandimarte
28 Novembre 2023

Dall’analisi dei dati provenienti da dispositivi impiantati diffusamente negli ultimi venti anni e in grado anche di monitorare costantemente il ritmo cardiaco come pacemaker, defibrillatori e loop recorder, è emerso che brevi episodi di fibrillazione atriale della durata da pochi minuti a poche ore sono comuni e spesso asintomatici (1). Si stima che questa fibrillazione atriale subclinica, come molti autori amano definirla oggi, sia presente in più di un terzo dei pazienti anziani ipertesi che sono stati sottoposti ad impianto di un pacemaker e che sia associata ad un aumentato rischio di ictus o embolie sistemiche pari a 2 volte e mezzo rispetto alla popolazione che non presenta questi eventi (2). Dato l’inevitabile aumento del rischio di sanguinamenti derivante dall’uso di anticoagulanti (anche di ultima generazione e specie nella popolazione anziana), il ruolo di questi ultimi nel trattamento di questo tipo di fibrillazione atriale non è chiaro.

A questo scopo è stato disegnato e condotto lo studio ARTESIA, i cui risultati sono stati recentemente pubblicati sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine in occasione del congresso della American Heart Association tenutosi a Philadelphia lo scorso 11-13 novembre (3). Questo trial randomizzato, multicentrico (247 strutture in Europa e Nord America) a doppio cieco ha studiato, tra il 7 maggio 2015 e il 30 luglio 2021, una coorte di 4012 pazienti portatori di pacemakers, defibrillatori o loop recorder affetti da episodi di fibrillazione atriale subclinica (della durata da 6 minuti a 24 ore), con un CHADS-VASC score ≥3 ed un’età ≥55 anni. 2.015 pazienti sono stati assegnati alla terapia con apixaban 5 mg due volte al giorno (dose eventualmente ridotta a 2.5 mg due volte al giorno qualora vi fosse l’indicazione in base all’età, il filtrato glomerulare o altre comorbidità che aumentassero il rischio di sanguinamento) e 1.997 pazienti al trattamento con aspirina al dosaggio di 81 mg al giorno con un follow-up di 3.5±1.8 anni. Criteri di esclusione sono stati una storia di fibrillazione atriale clinicamente documentata, patologie per cui era indicata terapia anticoagulante, storia di sanguinamenti maggiori nei precedenti 6 mesi o una clearance della creatinina inferiore a 25 ml/min. L’endpoint primario di efficacia è stato un composito di ictus e embolismo sistemico mentre l’endpoint primario di sicurezza è stato la presenza di un sanguinamento maggiore secondo la definizione della Società Internazionale Trombosi ed Emostasi.

L’età media dei soggetti è stata 76.8±7.6 anni con il 36.1% di sesso femminile. Il CHADS-VASC medio è stato di 3.9±1.1 e la durata media dell’episodio di fibrillazione atriale più lungo è stato di 1 ora e 47 minuti. All’analisi intention to treat l’endpoint primario di efficacia si è verificato in 55 pazienti del braccio apixaban e in 86 pazienti del gruppo aspirina (HR 0,63; 95% CI 0.45-0.88, p=0.007) con una riduzione del rischio di ictus fatale o invalidante del 49% a favore della terapia anticoagulante e numero di morti simili nei due gruppi. All’analisi on treatment l’endpoint primario di sicurezza è stato dell’1.71% per paziente/anno con apixaban e dello 0,94% per paziente/anno con l’aspirina (HR 1,80; 95% CI, 1,26-2.57, p=0.001). La maggior parte dei sanguinamenti hanno risposto bene alla terapia di supporto, tra cui la trasfusione di emocomponenti. I sanguinamenti fatali sono stati 5 nel braccio apixaban e 8 nel braccio aspirina mentre le emorragie intracraniche sintomatiche sono state 12 nella coorte apixaban e 15 in quella trattata con aspirina.

Il trial ha dimostrato che in pazienti con fibrillazione atriale subclinica e multipli fattori di rischio per ictus, il rischio di ictus o embolia sistemica e il rischio di ictus fatale o invalidante sono ridotti rispettivamente del 39% e del 49% con la terapia anticoagulante con apixaban mentre il rischio di sanguinamenti maggiori è aumentato con la stessa terapia di un fattore di 1.8 rispetto all’aspirina. Sebbene lo studio abbia dimostrato inoltre che il rischio di ictus o embolia sistemica in questi soggetti sia inferiore, come atteso, a quello presente nei soggetti con fibrillazione atriale chiaramente manifesta (nello studio AVERROES, infatti, il tasso di stroke o embolia sistemica è stato del 3.7% contro 1.24% del presente studio), questo rischio non è nullo (4). Nel valutare poi il rischio-beneficio della terapia anticoagulante è giusto ricordare che a fronte di 31 casi in meno di ictus o embolia sistemica si sono verificati 39 sanguinamenti maggiori in più ma mentre gli eventi ictali sono stati spesso invalidanti, le emorragie hanno determinato raramente condizioni patologiche irreversibili (90% degli eventi ha risposto a terapie di supporto).

I risultati di questo ampio studio vanno contestualizzati: è recente, infatti, il dato proveniente dal trial NOAH-AFNET 6 che ha analizzato una popolazione simile (sebbene meno numerosa, n=2.538) e che però non ha mostrato vantaggi della terapia anticoagulante (edoxaban) (5). Tuttavia i due studi presentano delle differenze che potrebbero spiegare questa discrepanza e che gli autori del trial stesso sottolineano come anche un editoriale di Svennberg che accompagna il lavoro: Innanzitutto lo studio NOAH-AFNET 6 non aveva abbastanza potenza per stabilire l’impatto degli stroke (solamente 49 casi in entrambe i gruppi, meno della metà di quelli osservati nel trial ARTESIA); inoltre, lo studio NOAH-AFNET 6 ha incluso pazienti con CHADSVASC mediamente più basso, popolazione pertanto con meno fattori di rischio per ictus e per la quale è intuibile una necessità meno impellente di instaurare una terapia anticoagulante che di contro potrebbe aver pesato sui sanguinamenti; da ultimo, lo studio NOAH-AFNET 6 ha incluso nell’endpoint primario di efficacia la morte per cause cardiovascolari non presente nel trial ARTESIA e che potrebbe aver diluito e in qualche modo nascosto i benefici legati alla riduzione degli ictus dal momento che spesso la causa di morte in questi pazienti è raramente legata all’ictus ma più frequentemente dalle sottostanti malattie cardiovascolari e dall’età avanzata.

Concludendo, Il messaggio clinico che deriva da questi studi è che anche la fibrillazione atriale subclinica comporta un certo rischio di ictus o embolie sistemiche, sebbene questo rischio sia decisamente più basso (circa la metà) di quello dei pazienti con fibrillazione atriale clinicamente manifesta e stimabile intorno all’1.1-1.2% secondo i dati ad oggi disponibili. Ciò detto, è verosimilmente ragionevole iniziare la terapia anticoagulante nei soggetti con rischio di ictus apriori elevato ovvero quelli con un CHADSVASC alto (verosimilmente superiore a 3). Negli altri casi il ruolo della terapia anticoagulante resta controverso ed a tutt’oggi forse non conveniente in quanto il rischio di sanguinamenti supera il beneficio sugli eventi ischemici.

Bibliografia

  1. Glotzer TV, Hellkamp AS, Zimmerman J, et al. Atrial high rate episodes detected by pacemaker diagnostics predict death and stroke: report of the Atrial Diagnostics Ancillary Study of the Mode Selection Trial (MOST). Circulation 2003;107:1614-9.
  2. Healey JS, Connolly SJ, Gold MR, et al. Subclinical atrial fibrillation and the risk of stroke. N Engl J Med 2012;366:120-9.
  3. Healey JS, LopesRD, Granger CB et al. Apixaban for stroke prevention in subclinical atrial fibrillation. N Engl J med 2023 ahead of print
  4. Connolly SJ, Eikelboom J, Joyner C, et al. Apixaban in patients with atrial fibrillation. N Engl J Med 2011;364:806-17.
  5. Kirchhof P, Toennis T, Goette A, et al. Anticoagulation with edoxaban in patients with atrial high-rate episodes. N Engl J Med 2023;389:1167-79.