“la storia naturale della CMI è il racconto di tante storie naturali dei pazienti in questi 60 anni, che rispecchia il diverso livello di conoscenza della malattia nel tempo e il miglioramento progressivo delle strategie di trattamento. Allo stato attuale possiamo osservare una storia naturale dei pazienti con CMI che è evoluta verso una storia innaturale con profilo più benigno. Al contrario, non siamo ancora in grado di intervenire sulle cause primarie della malattia e di modificarne il corso biologico.”
Prof. Autore, innanzitutto complimenti per l’impegno e la dedizione con cui segue i pazienti affetti da cardiomiopatia ipertrofica. Il Suo è uno dei centri di riferimento per questa cardiomiopatia nel Lazio. Le chiedo di fornirci il Suo punto di vista relativamente alla gravità e prognosi di questa malattia. È così grave quanto sembra?
La cardiomiopatia ipertrofica (CMI) era considerata negli anni ’60, non molto tempo dopo la prima descrizione nella letteratura medica, una malattia molto grave con un’elevata mortalità annuale, compresa tra il 4% e il 6%. All’epoca, le informazioni sui pazienti affetti provenivano in larga parte da due soli centri terziari. Tra gli anni ’80 e ’90, dopo l’introduzione dell’ecocardiografia nella diagnosi della CMI, la nostra comprensione della malattia è migliorata. È stato possibile esaminare coorti di pazienti non selezionate e abbiamo potuto dimostrare un profilo prognostico più benigno della malattia con una mortalità annuale dell’1,5% o anche inferiore. La storia naturale della malattia è cambiata ulteriormente con le attuali strategie di trattamento, con il risultato di una mortalità annuale inferiore all’1% e una maggiore aspettativa e qualità di vita dei pazienti con CMI.
Grazie Professore. I pazienti con CMI sono tutti uguali o è possibile distinguere fenotipi differenti di malattia con differente prognosi?
Dal 2000 in poi numerose pubblicazioni analizzano il valore prognostico delle diverse manifestazioni cliniche della CMI e ne descrivono le complicanze, utilizzando ampie casistiche non selezionate e studi multicentrici. Si comprende a questo punto che il decorso clinico e le complicanze cui possono andare incontro i pazienti con CMI camminano lungo percorsi separati e relativamente indipendenti, dove, accanto a una maggioranza di pazienti (il 60% circa) che ha un decorso sostanzialmente stabile e senza (o con minori) complicanze si possono distinguere 4 sottogruppi caratterizzati da: 1) un elevato rischio di morte improvvisa, 2) sintomi progressivi di insufficienza cardiaca con grave limitazione funzionale spesso associati a dolore toracico e usualmente in presenza di una funzione sistolica conservata, 3) evoluzione verso la fase end-stage con rimodellamento ventricolare e disfunzione sistolica e 4) fibrillazione atriale con il rischio dello stroke embolico.
Nel 2003, per la prima volta dopo oltre 40 anni dalla prima descrizione della CMI, in una popolazione prospettica di oltre 1000 pazienti, di cui il 25% con gradiente all’efflusso in condizioni basali (>30 mmHg), viene dimostrato che l’ostruzione nel tratto di efflusso del ventricolo sinistro è un marker forte e indipendente di progressione dei sintomi di scompenso cardiaco e mortalità legata a insufficienza cardiaca e stroke.
Professore Lei ha parlato di morte improvvisa. Ci sono degli ulteriori markers clinici o anatomici in grado di predire una prognosi peggiore ed un aumentato rischio di morte improvvisa? La risonanza magnetica cardiaca può aiutarci?
Nel 2006, abbiamo la prima pubblicazione relativa a pazienti con evoluzione end stage della CMI (il 3,5% di una casistica di oltre 1200 pazienti). Questo percorso sfavorevole della malattia, si accompagna a una mortalità annua dell’11% e rappresenta un importante fattore di rischio per morte improvvisa. Un altro percorso di progressione della CMI, segnalato più di recente, è quello caratterizzato dallo sviluppo di un aneurisma apicale (fino al 5% dei casi). Questa evoluzione della malattia, al cui riconoscimento la risonanza magnetica del cuore ha dato un importante contributo, si accompagna a un rischio elevato per morte, soprattutto morte improvvisa, aritmie, ed eventi cardioembolici con un rischio 3 volte superiore di complicanze legate alla malattia rispetto al resto dei pazienti senza aneurisma.
Grazie Professore. Ma quali sono le attuali strategie di trattamento che hanno migliorato la prognosi della cardiomiopatia ipertrofica?
Dal 2000 in poi si sviluppano nuove strategie di trattamento della CMI e altre ricevono un nuovo impulso. Il defibrillatore impiantabile (ICD) è in grado di interrompere aritmie fatali e si dimostrerà efficace a prevenire la morte improvvisa sia nella popolazione adulta (10%/anno di interventi in prevenzione secondaria e 4% /anno di interventi in prevenzione primaria) che nei bambini. Questo strumento cambia la storia naturale dei pazienti con CMI. Nei pazienti con profilo prognostico caratterizzato da insufficienza cardiaca severa refrattaria, accanto alla terapia medica massimale il trapianto cardiaco viene utilizzato con maggiore frequenza. La sopravvivenza dei pazienti con CMI nel post-trapianto appare superiore a quella dei trapiantati per altre patologie. Anche il trapianto modifica la storia naturale della malattia e l’aspettativa di vita di molti pazienti. Con la pubblicazione dei risultati provenienti da due diversi centri di riferimento (Rochester e Toronto) in cui si dimostra che il trattamento chirurgico di rimozione del gradiente nel tratto di efflusso del ventricolo sinistro può modificare la sopravvivenza dei pazienti con CMI, la miectomia ha un nuovo impulso, specialmente in confronto ai 30 anni precedenti. La tecnica chirurgica si arricchisce di interventi complementari rispetto alla semplice miectomia tradizionale e la mortalità operatoria scende da un inaccettabile 6% a un valore inferiore all’1% nei Centri di Eccellenza. L’indicazione all’intervento viene estesa a una percentuale maggiore di pazienti con la forma ostruttiva della malattia, in considerazione del miglioramento dei sintomi stabile nel tempo. Questo nuovo impulso al trattamento della forma ostruttiva con la miectomia ha rappresentato un importante passo avanti nella riduzione della mortalità e della morbilità nella CMI. In pazienti selezionati, anziani o con rischio chirurgico elevato per la presenza di importanti comorbilità, l’ablazione alcolica del setto, tecnica introdotta verso la fine degli anni ’90, rappresenta adesso una valida alternativa alla chirurgia, ottenendo nei pazienti con la forma ostruttiva della malattia un importante miglioramento dei sintomi e una buona sopravvivenza nel lungo termine.
Quindi possiamo affermare che è una malattia curabile?
Certamente la prospettiva clinica come quella psicologica della CMI è cambiata e i pazienti possono essere rassicurati sul decorso della malattia e sulla potenzialità di interventi terapeutici che possono sia far fronte alle complicanze sia migliorare la qualità della vita.
Ma la realtà non è tutta così positiva e una maggiore cautela nel giudizio sulla prognosi di questa malattia è necessario. Nonostante la storia naturale dei pazienti con cardiomiopatia ipertrofica si sia trasformata in una più benigna “storia innaturale” grazie alle attuali strategie di trattamento, di fatto non abbiamo ancora una cura della malattia. L’evoluzione della cardiomiopatia ipertrofica, il processo delle modificazioni progressive del suo substrato anatomico e funzionale con il conseguente rimodellamento cardiaco, procede secondo un percorso di “storia naturale” esattamente come poteva avvenire 60 anni fa, quasi per nulla toccato (influenzato) dai nostri interventi volti essenzialmente al trattamento delle complicanze della malattia.
In accordo con queste considerazioni, risultati meno entusiastici sono riportati nel registro multicentrico SHaRe basato sull’osservazione nel tempo di oltre 4500 pazienti. L’analisi dei dati mostra che l’insufficienza cardiaca e la fibrillazione atriale pesano in modo non trascurabile sulla morbilità della malattia, così come la mortalità, soprattutto nei pazienti diagnosticati in giovane età e in quelli con le mutazioni sarcomeriche.
Professore Le chiedo un’ultima riflessione. Cosa manca ancora?
Un giudizio più globale sulla prognosi deve basarsi non soltanto su quanto la malattia oggi possa condizionare la sopravvivenza dei pazienti, ma anche su come e quanto le strategie terapeutiche che mettiamo in atto per prolungare la vita dei pazienti (defibrillatori, miectomia, trapianto) ne condizionino, di fatto, la qualità e siano responsabili di una morbilità aggiuntiva legata alle loro potenziali complicanze. Per migliorare il trattamento dei pazienti con CMI è necessario sviluppare ulteriori strategie innovative che includano terapie in grado di prevenire la progressione delle alterazioni fenotipiche della malattia e le loro conseguenze sfavorevoli.