LA RADIOTERAPIA TORACICA E LE CONSEGUENZE SUL CUORE
di Antonella Labellarte
25 Novembre 2013

L’utilizzo della radioterapia nel trattamento delle patologie neoplastiche localizzate al torace quali ad esempio il tumore della mammella e il linfoma di Hodgkin, ha consentito un significativo miglioramento della sopravvivenza di questi pazienti. In misura più limitata, la sopravvivenza è maggiore anche in altre forme tumorali (tumore del polmone). Di contro, però, anche a distanza di decenni dal trattamento possono manifestarsi problemi cardiovascolari legati al danno indotto dalle radiazioni. E’ stato infatti documentato un rischio aumentato della comparsa di scompenso cardiaco, malattia coronarica, pericardite e disturbi della conduzione elettrica e le malattie cardiovascolari rappresentano attualmente la causa più frequente di morte non neoplastica nei pazienti sopravvissuti ad un tumore trattato con la radioterapia.

Il linfoma di Hodgkin, malattia tumorale ematologica frequente nei giovani adulti, se diagnosticato in fase precoce ha oggi un tasso di sopravvivenza che si avvicina al 95%, così pure il tumore della mammella, la malattia neoplastica più comune nelle donne, se diagnosticato in fase precoce raggiunge una sopravvivenza a 5 anni pari al 95 %. Entrambe le patologie si giovano del trattamento adiuvante con radioterapia che può essere causa di un danno “silente” sul cuore, provocando “soltanto”un’alterazione dei tessuti, così come una malattia sintomatica.
L’effetto diretto sulle strutture che vengono irradiate è noto: le radiazioni (che colpiscono cellule sane e cellule tumorali) causano la formazione di specie reattive dell’ossigeno che danneggiano il DNA e provocano infiammazione causando un’alterazione della membrana della parete (endotelio) dei piccoli vasi e da ultimo ispessimento della parete micro vascolare e comparsa di fibrosi che si diffonde nell’interstizio del tessuto cardiaco.
L’aumento della permeabilità della parete dei capillari è inoltre responsabile della comparsa dell’eritema da radiazioni.

Negli anni, ovviamente, le tecniche di radioterapia vanno migliorando con l’obiettivo di proteggere sempre di più il cuore dai raggi con schermature appropriate, di ridurre la dose totale di raggi (< 30Gy) e la dose per giorno (< 2 Gy) e di erogare irradiazioni con intensità differenziata a seconda della profondità dei tessuti.

La pericardite acuta rappresenta la complicanza cardiaca più precoce e che compare a poche settimane dal trattamento radioterapico: le nuove tecniche di radioterapia ne hanno decisamente ridotto l’incidenza ed ha in genere un andamento benigno. A distanza di anni, invece può comparire una pericardite cronica.
Il danno endoteliale caratteristico dell’irradiazione causa una sequenza di eventi che conduce alla formazione delle placche aterosclerotiche dei vasi e le radiazioni hanno inoltre un effetto pro-trombotico per cui il danno da radiazioni si traduce in sostanza nella comparsa di una coronaropatia con placche prevalentemente fibrose e meno ricche in colesterolo e che sono molto frequentemente localizzate all’ostio dei vasi. E’ stato dimostrato, come è ovvio, che l’incidenza della coronaropatia aumenta con l’aumentare dei fattori di rischio ragione per cui è fondamentale in questi pazienti il controllo dei fattori di rischio cardiovascolare tradizionali.

La fibrosi interstiziale diffusa, nonostante il miocardio sia originariamente protetto dal danno da radiazioni a causa della mancata replicazione cellulare, compare per dosi elevate di radiazioni (in genere >30Gy) e causa una ridotta distensibilità di parete con un’alterazione della funzione contrattile del cuore. Praticamente poi tutti i disturbi del sistema di conduzione elettrica del cuore sono stati descritti come complicanza della radioterapia ed infine, come complicanza tardiva, vanno segnalate anche le alterazioni degli apparati valvolari con valvole che si presentano fibrotiche, ispessite, con importanti deposizioni di calcio e soggette a fenomeni di retrazione e quindi di steno/insufficienza.

Ad oggi non esistono dei protocolli di screening delle malattie cardiovascolari e di follow up cardiologico universalmente condivisi nei pazienti neoplastici sottoposti a trattamento radioterapico. Gli autori dell’articolo cui questa newsletter fa riferimento sottolineano come sia indispensabile una valutazione iniziale del paziente da sottoporre a radioterapia che comprenda un’accurata anamnesi cardiologica associata ad un’attenta valutazione dei fattori di rischio cardiovascolari, un esame obiettivo cardiaco e un ecocardiogramma basale con valutazione della funzione diastolica e sistolica.

Propongono poi che lo screening delle malattie cardiovascolari inizi 5 anni dopo la sospensione del trattamento radioterapico, con una valutazione specialistica annuale presso un centro clinico dedicato da cui poi si possa eventualmente indirizzare al cardiologo il paziente che necessiti di valutazioni più approfondite.
Le valutazioni iniziali annuali possono includere un semplice elettrocardiogramma, il dosaggio di BNP e troponina anche se l’utilità di questi marcatori serici è stata studiata prevalentemente nei pazienti sottoposti a chemioterapia.
Il passaggio ad esami di imaging include l’ecocardiogramma per lo studio della funzione sisto diastolica ed eventualmente un ecocardiogramma da stress da preferire alla scintigrafia per evitare ulteriori raggi.

La risonanza magnetica, tecnica radiologica non invasiva che così tanto ha contribuito negli ultimi decenni nello studio e nella caratterizzazione dei tessuti, non comporta esposizione a radiazioni e consente con l’utilizzo dei mezzi di contrasto al gadolinio (vedi la newsletter di gennaio 2013) di visualizzare con estrema precisione la condizione del miocardio e rilevare la presenza di fibrosi per rendere possibile la tempestiva somministrazione di farmaci di provata attività antifibrotica quali gli ACE- inibitori o gli antialdosteronici.

Fonti:
Cardiac Complications of Thoracic Irradiation
Catherine Jaworski, MBBS; Justin A. Mariani, MBBS, PhD; Greg Wheeler, MBBS; David M. Kaye, MBBS, PhD J Am Coll Cardiol. 2013;61(23):2319-2328

Antonella Labellarte
Cardiologa
Ospedale S. Eugenio, Roma