La prevalenza di ultrasessantacinquenni passerà nei prossimi 30 anni dall’attuale 20.3% al 33.1%. La numerosità dell’intera popolazione – a causa dei flussi migratori ormai stabili e della ridotta natalità – resterà sostanzialmente fissa, lambendo i 65 milioni di individui. Un quinto di tutti gli italiani anziani sarà composto da soggetti con una età compresa tra 65 e 74 anni, mentre il 12.7% avrà una età pari o superiore a 75 anni e, infine, il 7.6% pari o superiore ad 85 anni (i cosiddetti “grandi anziani”).

Pertanto, è evidente da quanto sopra esposto come l’ipertensione arteriosa – presente nel 70% degli ultrasessantacinquenni – vedrà sempre più rafforzato il suo ruolo prognosticamente negativo. Ciò sia in termini di mortalità che in quelli di fragilità. L’ipertensione arteriosa, infatti, è nel paziente anziano un tanto potente quanto comune determinante di deterioramento cognitivo e, quindi di mancata autosufficienza. D’altra parte, nei pazienti anziani resi fragili da un deterioramento cognitivo insorto in assenza di eventi cerebrovascolari acuti, la comparsa di questi moltiplicherà drammaticamente tale fragilità, a causa della simultanea presenza di deficit cognitivi e problematiche motorie conseguenti ad un ictus cerebri.
Ciò – pur nella pochezza dei dati disponibili e nella conseguente incertezza clinica – spinge a trattare cautamente, ma più spesso e più efficacemente di quanto non si faccia di solito, l’ipertensione arteriosa nel grande anziano. Spinge, in una parola, a trattare in modo oculato. Questo soprattutto per evitare l’insorgenza di fenomeni ipotensivi, lesivi come l’ipertensione sia in termini generali che di deterioramento cognitivo. A totale supporto di questo convincimento, grazie ad una ricerca geriatrica recentemente pubblicata è stato dimostrato in 74 uomini e 197 donne novantenni partecipanti allo studio Leiden 85-plus come il decremento eccessivo della pressione arteriosa fosse combinato ad un incremento della mortalità quando comparato ad una pressione arteriosa sistolica stabile e nella media. Anche un incremento della pressione arteriosa, tuttavia, esercitava una influenza prognosticamente negativa.

Quanto sopra era osservato anche nei nonagenari in cui il trend pressorio sistolico era stabilmente controllato al di sotto dei 150 mmHg. In tali grandi anziani, infatti, era il mantenimento negli anni di questo buon controllo sistolico a garantire quantità e qualità di vita, mentre troppa pressione o troppo poca esercitavano una influenza parimenti negativa.
Il mancato ingresso del paziente anziano nel labirinto della fragilità, pertanto, è fortemente pressione-dipendente. Il pericolo di morire sembra essere ai livelli minimi nel grande anziano con una pressione stabilmente controllata nel tempo. Tanto un incremento quanto un decremento rispetto alla calma piatta della normotensione, invece, influenzano la prognosi in modo negativo.
Fonti:
Poortvliet RK, de Ruijter W, de Craen AJ, Mooijaart SP, Westendorp RG, Assendelft WJ, Gussekloo J, Blom JW. Blood pressure trends and mortality: the Leiden 85-plus Study. J Hypertens. 2013;31(1):63-70.
Prof. Claudio Ferri
Direttore della Scuola di Medicina Interna
Università degli Studi L’Aquila