La golden hour nella gestione dello shock: fare tanto, fare in fretta
di Laura Gatto intervista Marco Marini
29 Febbraio 2024

Durante la prima sessione di Conoscere e Curare il Cuore che ha aperto ufficialmente i lavori di questo congresso giunto, ormai, alla sua 41° edizione, il dott. Marco Marini, responsabile della terapia intensiva degli Ospedali Riuniti di Ancona, ha affrontato l’interessante tema dello shock cardiogeno, sottolineando l’importanza di una diagnosi tempestiva che consenta di trattare il paziente il più precocemente possibile.

Gatto: Dott. Marini, quale è la definizione più corretta di shock cardiogeno?

Marini: Lo shock cardiogeno si può definire come uno stato di inadeguata perfusione d’organo legato primariamente ad una disfunzione di pompa cardiaca. Nonostante i numerosi progressi nella terapia di riperfusione e di supporto al circolo, si tratta di una condizione dalla mortalità elevata, con un range oscillante dal 25 al 70%.

Le definizioni di shock cardiogeno sono varie, classicamente basate sulla presenza di ipotensione con associati di segni di ipoperfusione d’organo quali oligoanuria, incremento dei lattati, alterazione dello stato mentale. Parametri emodinamici come l’indice cardiaco inferiore a 2.2 ml/min/m2 e pressione di incuneamento polmonare superiore a 15 mmHg, sono stati talora utilizzati nella definizione di shock cardiogeno insieme ad altri indici come il cardiac power output (CPO)1.  È tuttavia doveroso sottolineare che lo shock cardiogeno può presentarsi con ipoperfusione anche in assenza di ipotensione (per un meccanismo compensatorio di incremento delle resistenze periferiche) delineando un fenotipo a maggiore rischio di mortalità rispetto ad un quadro di sola ipotensione senza segni di ipoperfusione2.

Gatto: Che cosa si intende esattamente per “golden hour dello shock cardiogeno” e quali sono le principali cause che possono determinare questa condizione?

Marini: Lo shock cardiogeno rappresenta una condizione critica tempo dipendente che necessita di una strategia di pianificazione terapeutica mirata sin dal primo contatto clinico, definendo un breve lasso di tempo come “golden hour” per l’inquadramento e l’iniziale gestione.   

Le due cause predominanti di tale condizione sono l’infarto miocardico acuto e l’acutely decompensated heart failure (ADHF) e negli ultimi anni è stato descritto un importante incremento dei casi di shock cardiogeno da ADHF. L’identificazione della causa sottostante la presentazione clinica è di cruciale importanza per orientare la scelta terapeutica con ovvie implicazioni prognostiche.

Gatto: Quali sono i primi esami strumentali da effettuare in un paziente con il sospetto di shock cardiogeno?

Marini: Esami diagnostici di prima linea includono l’elettrocardiogramma a 12 derivazioni, l’ecografia, l’emogasanalisi e gli esami ematochimici. L’elettrocardiogramma permette di identificare tachicardie, bradicardie ed infarto miocardico con o senza elevazione del tratto ST. In urgenza è sempre consigliato uno studio ecografico mirato a valutare la contrattilità cardiaca bi-ventricolare, verificare la presenza di congestione (linee B polmonari, collassabilità della vena cava inferiore), E/e’ ratio, variabilità del VTI (Velocity Time Integral) aortico durante leg passive raising, VExUS score (Venous excess ultrasound score) e identificare le cause dello shock cardiogeno (Takotsubo, valvulopatie, decompensated heart failure, infarto etc). Un monitoraggio cruento della curva pressoria dovrebbe essere rapidamente iniziato al fine di ottenere un controllo continuo della variabilità del polso pressorio oltre che facilitare frequenti prelievi ematochimici ed emogasanalitici.

Esami ematochimici comprensivi di troponina, funzione renale ed epatica sono utili nel discriminare ulteriormente la genesi dello shock3. Il dosaggio del lattato come marker di ipoperfusione ed ipossia tissutale è strettamente raccomandato con particolare attenzione alla clearance del lattato, la quale correla con la prognosi più del singolo valore iniziale4.

Gatto: Quando è utile, invece, ricorrere ad una valutazione più invasiva dei parametri emodinamici?

Marini: Il posizionamento di un catetere venoso centrale è auspicabile nella maggior parte dei casi, in quanto permette il monitoraggio continuo della pressione venosa centrale e la valutazione della saturazione venosa centrale (indice di ipoperfusione occulta in assenza di elevazione dei lattati). Inoltre anche la valutazione del delta CO2 (differenza tra CO2 arteriosa e venosa da accesso venoso centrale) è espressione di ipoperfusione tissutale precoce e sensibile anche in condizioni in cui la SvCO2 lo è meno (es nello shock settico o misto). Nonostante la riduzione del suo impiego alla luce della mancanza di robuste evidenze scientifiche, all’aumentare della classe di severità SCAI si dimostra molto utile la disponibilità di parametri ulteriori quali CO (cardiac output), CPO (Cardiac Power Output), PAPi index (Pulmonary Artery Pulsatility Index), resistenze vascolari, derivati dall’inserimento di un catetere di Swang-Ganz, al fine di individuare una disfunzione destra latente e/o caratterizzare l’eventuale evoluzione verso uno stato infiammatorio/settico, con possibilità di orientare e “customizzare” la scelta terapeutica vaso-attiva sia farmacologica che meccanica5.

 Gatto: Dott Marini, in cosa consiste la terapia dello shock cardiogeno?

Marini: La terapia dello shock cardiogeno si basa su due cardini fondamentali: il trattamento della causa sottostante, ad esempio la rivascolarizzazione miocardica in caso di infarto acuto e la terapia di supporto volta a migliorare la perfusione e l’ossigenazione attraverso l’utilizzo di farmaci vasoattivi e dispositivi di supporto meccanico al circolo. La somministrazione di liquidi con boli di soluzione salina o Ringer lattato dovrebbe essere considerata in pazienti non congesti con profilo emodinamico precarico dipendente. Il tipo di supporto ventilatorio (non invasivo vs invasivo) dovrebbe essere valutato all’arrivo in base alla presentazione clinica e ai dati emogasanalitici, tenendo ben in considerazione anche il beneficio emodinamico dato dalla riduzione del postcarico di una ventilazione a pressione positiva.

Gatto: Quali farmaci sono preferibili?

Marini: L’utilizzo di farmaci vasoattivi (inotropi, vasopressori, inodilatatori) è associato ad incremento della morbilità e della mortalità intraospedaliera attraverso meccanismi di incremento del lavoro cardiaco, del consumo di ossigeno, inducibilità aritmica. Pertanto la loro somministrazione andrebbe individualizzata in base alle esigenze emodinamiche del paziente, per il più breve tempo possibile, al minimo dosaggio sufficiente e tenuto conto del profilo emodinamico prevalente. Le linee guida ESC raccomandano l’utilizzo di norepinefrina in classe IIb/B come vasopressore di prima linea, mentre gli inotropi possono essere considerati in aggiunta per migliorare la portata cardiaca e la perfusione d’organo (classe IIb/C). Non ci sono differenze significative tra levosimendan, milrinone e dobutamina, mentre la vasopressina può avere un ruolo in caso di ipotensione refrattaria alla terapia alla terapia o in caso di scompenso destro per la sua selettività di azione sul circolo sistemico, non impattando sulle resistenze vascolari polmonari6.

Gatto: Quale ruolo, invece, riserviamo ai sistemi di assistenza al circolo?

Marini: I pazienti che si presentano con shock cardiogeno estremo, in deterioramento o non stabilizzabili emodinamicamente con due agenti vasoattivi potrebbero beneficiare di supporti meccanici al circolo (raccomandazione classe IIa/C). Le scelte per il supporto al ventricolo sinistro includono il contropulsatore aortico (IABP, Intra-aortic Balloon pump) e le pompe di flusso microassiali (Impella Cardiac Power o CP, Impella 5-5.5). I sistemi di assistenza al ventricolo destro includono Impella RP e dispositivi Tandem-Heart RA-PA (Right Atrium – Pulmonary Artery), Protek Duo. Infine, per migliorare la perfusione d’organo in caso di severa disfunzione biventricolare e concomitante ARDS è disponibile la membrana di ossigenazione veno-arteriosa extracorporea (VA-ECMO: Venous-arterial extracorporeal membrane oxygenation). L’uso dell’IABP si è ridotto nel tempo per la mancanza di benefici in termini di sopravvivenza ed è attualmente considerato per pazienti in shock refrattario non dovuto a infarto miocardico (classe IIb/C) o per pazienti con shock cardiogeno da infarto miocardico in presenza di complicanze meccaniche, come bridge a supporti più avanzati (classe IIa/C)6.

Sebbene l’Impella sembri promettente, sono disponibili pochi dati riguardo al suo effetto benefico sulla mortalità. Allo stesso modo, l’ECMO potrebbe migliorare la stabilità emodinamica durante rianimazione cardiopolmonare, ma anche aumentare il post-carico del ventricolo sinistro, rendendo il suo utilizzo ragionevole quando associato a dispositivi che consentano un “unloading” del ventricolo sinistro (es. IABP, Impella, settostomia, configurazioni ibride del circuito). Tuttavia, i dati forniti dai trial ECLS-SHOCK (Extra Corporeal Life Support in Infarct-Related Cardiogenic shock) ed ECMO-CM (Extracorporeal Membrane Oxygenation in the Therapy of Cardiogenic Shock) presentati recentemente non sono stati soddisfacenti, seppur con le limitazioni dovute alla ridotta numerosità del campionr ed alla gravità generale di tali pazienti.  Inoltre, dispositivi come Impella ed ECMO necessitano l’inserzione di cannule di ampio calibro nei vasi principali e portano con sé un alto rischio di complicanze, incluse quelle del sito di accesso ed i sanguinamenti.

Gatto: Ci sono dati che supportano l’impiego di tali i sistemi di assistenza meccanica in una fase molto precoce dello Shock Cardiogeno?

Marini: Pochissimi. Il “Detroit cardiogenic shock initiative” è uno studio pilota a singolo braccio multicentrico che ha valutato la fattibilità dell’applicazione precoce di supporti meccanici al circolo in un piccolo gruppo di pazienti con shock cardiogeno (n = 41), con buoni risultati in termini di mortalità rispetto alla coorte di controllo “storica” (85% vs 51%, p < 0.001) e con un incremento del 67% del cardiac power output a seguito della procedura indice7.  

In Italia è in corso lo studio Altshock-2 (Early intra-aortic balloon pump in acute decompensated heart failure complicated by cardiogenic shock), un trial prospettico, randomizzato, multicentrico, open-label, con valutazione degli outcome in cieco, in cui 200 pazienti con shock cardiogeno da acutely decompensated heart failure verranno randomizzati per l’impianto precoce di un IABP o per trattamenti vasoattivi.

L’eventuale implementazione evidence-based di un supporto meccanico al circolo precoce nel panorama della gestione dei pazienti con shock cardiogeno potrebbe condurre ad un aumento della sopravvivenza supportando il principio di interventi “door to support”, finalizzati ad anticipare gli effetti deleteri della spirale negativa dello shock cardiogeno.

Gatto: Che cosa si intende esattamente per shock team e rete dello shock?

Marini: La varietà di presentazione dello shock cardiogeno, la gravità e le potenziali cause, l’assenza di forti evidenze per i trattamenti proposti (es. supporti meccanici) e la necessità di terapie personalizzate rendono il decision-making ancora più complesso e la presenza di un team multidisciplinare essenziale. L’introduzione del modello “hub-and-spoke” ha dimostrato effetti positivi sugli outcome delle cure in un setting “real life”,     L’ospedale “hub” è dotato di un team multidisciplinare composto da cardiologo interventista, urgentista, cardiochirurgo e specialista in scompenso avanzato. Gli ospedali “spoke” comprendono i centri dotati di emodinamica senza disponibilità di supporti al circolo avanzati o ospedali non dotati di emodinamica, entrambi referenti al centro “hub”. Il centro hub dovrebbe essere dotato di uno shock team che fornisce adeguate informazioni ai centri spoke riguardo la necessità di escalation dei trattamenti, la necessità di supporto avanzato, cateterismo destro per la scelta del supporto appropriato, gestione perioperatoria e monitoraggio adeguati, eventuale weaning da supporti8.

Bibliografia di riferimento

  1. Jentzer JC, Burstein B, Van Diepen S, et al. Defining Shock and Preshock for Mortality Risk Stratification in Cardiac Intensive Care Unit Patients. Circ Heart Fail. 2021;14(1). doi:10.1161/CIRCHEARTFAILURE.120.007678
  2. Kapur NK, Kanwar M, Sinha SS, et al. Criteria for Defining Stages of Cardiogenic Shock Severity. J Am Coll Cardiol. 2022;80(3):185-198. doi:https://doi.org/10.1016/j.jacc.2022.04.049
  3. McDonagh TA, Metra M, Adamo M, et al. 2021 ESC Guidelines for the diagnosis and treatment of acute and chronic heart failure: Developed by the Task Force for the diagnosis and treatment of acute and chronic heart failure of the European Society of Cardiology (ESC). With the special contribution of the Heart Failure Association (HFA) of the ESC. Eur J Heart Fail. 2022;24(1). doi:10.1002/ejhf.2333
  4. Fuernau G, Desch S, de Waha-Thiele S, et al. Arterial Lactate in Cardiogenic Shock: Prognostic Value of Clearance Versus Single Values. JACC Cardiovasc Interv. 2020;13(19). doi:10.1016/j.jcin.2020.06.037
  5. Tehrani BN, Truesdell AG, Psotka MA, et al. A Standardized and Comprehensive Approach to the Management of Cardiogenic Shock. JACC Heart Fail. 2020;8(11). doi:10.1016/j.jchf.2020.09.005
  6. McDonagh TA, Metra M, Adamo M, et al. 2021 ESC Guidelines for the diagnosis and treatment of acute and chronic heart failure: Developed by the Task Force for the diagnosis and treatment of acute and chronic heart failure of the European Society of Cardiology (ESC). With the special contribution of the Heart Failure Association (HFA) of the ESC. Eur J Heart Fail. 2022;24(1). doi:10.1002/ejhf.2333
  7. Basir MB, Schreiber T, Dixon S, et al. Feasibility of early mechanical circulatory support in acute myocardial infarction complicated by cardiogenic shock: The Detroit cardiogenic shock initiative. Catheterization and Cardiovascular Interventions. 2018;91(3). doi:10.1002/ccd.27427
  8. Lu DY, Adelsheimer A, Chan K, et al. Impact of hospital transfer to hubs on outcomes of cardiogenic shock in the real world. Eur J Heart Fail. 2021;23(11). doi:10.1002/ejhf.2263