Asclepio dimostrò fin dall’inizio grandissima abilità e smisurata ambizione: non voleva essere un medico come tanti altri, ma un medico ricco, potente e venerato. Spesso, nella notte, mentre scrutava le stelle, gli accadeva di sognare di diventare il dio della medicina. Poiché questo gli era negato per nascita, decise di esserne almeno il pontefice e ci riuscì ben presto. Possedeva innate tutte le qualità del leader: anche i colleghi più anziani subito rivelarono per lui ammirazione e soggezione, gli ammalati si rivolgevano tutti a lui. Nella visita del mattino ad Epidauro procedeva sempre alla testa del gruppo; sacerdoti, medici ed infermieri ammutolivano al suo passaggio, dalla folla degli ammalati e dei loro congiunti si alzavano invocazioni e preghiere, quelli che potevano farlo si genuflettevano, i più vicini gli toccavano la veste e gli baciavano le mani. Asclepio volgeva loro fugacemente lo sguardo senza dire parola. Di fronte agli ammalati più gravi o più importanti sostava pensieroso qualche istante poi dava disposizioni a bassa voce al collaboratore più vicino, incomprensibili a tutti gli altri. Indossava sempre un himation candido accuratamente drappeggiato, con la spalla destra e parte del petto scoperti. Non appena gli crebbe la barba l’arricciò come quella di Zeus, in mano teneva sempre un grosso bastone al quale era perennemente attorcigliato il serpente. Nessun altro medico aveva il bastone né un serpente sacro personale. Teneva moltissimo alle relazioni pubbliche e aveva cura che niente della sua opera finisse dimenticato, per ciò faceva scolpire su steli di pietra i nomi di tutti gli ammalati da lui guariti. Pindaro può essere considerato il suo ufficio stampa: “tutti coloro che venivano da lui”, scrisse, portatori di ulcere nate nella loro carne, feriti dal bronzo lucente o dalla pietra da lancio, il corpo afflitto dall’ardore dell’estate o dal freddo dell’inverno, egli liberava ciascuno dal suo male, talvolta guarendoli con dolci incantesimi, talvolta dando loro pozioni benefiche o applicando alle loro membra ogni sorta di rimedio, talvolta infine rimettendoli in salute con incisioni”. La gente diceva che Asclepio sapeva curare con la parola, le pozioni ed il coltello: secondo necessità sapeva far ricorso alla psicoterapia, ai farmaci e alla chirurgia. Non possedeva la destrezza di mano di Chitone, ma in tutto il resto superò rapidamente il maestro che mai aveva usato il bisturi e solo eccezionalmente le medicine. Per curare il suo ginocchio ferito dal maldestro Eracle, con scarsa fiducia e solo per le insistenze degli allievi, Chitone ricorse ad una foglia medicamentosa portatagli da una terra lontana, che venne chiamata ch’ironia in suo onore. Per mettersi in evidenza Asclepio aveva partecipato giovanissimo, alla spedizione degli argonauti, quanto mai esclusiva: cinquanta eroi selezionatissimi, il meglio della nobile gioventù greca. In Coclide non fece cose particolarmente meritorie, ma strinse molte amicizie. Durante il viaggio di ritorno divenne grande amico di Orfeo che, sulle rive dell’Eridano, il nostro Po, lo rese partecipe dei culti misterici e delle iniziazioni e gli insegnò le sottili arti per sedurre e conquistare il prossimo che mise a buon frutto nella professione. Non perse occasioni per sfruttare l’appoggio dei potenti, in particolare si giovò dell’affettuosa protezione di Igea, dea della salute, procace tardona che voleva essere ritratta con sembianze di giovinetta. L’essere figlio del dio della medicina e amante della dea della salute crebbe il suo prestigio ed esaltò, se ve ne fosse stato bisogno, l’intima aspirazione a salire sempre più in alto. Se la prese con Pindaro una volta che lo chiamò “eroe guaritore” e scagliò con rabbia l’Iliade quando vi lesse che Omero lo definiva re tessalico “guaritore irreprensibile”. Ben altro voleva che si scrivesse di lui. La sua fama crebbe senza soste e senza confini, specialmente dacché riuscì a resuscitare i morti. Per le resurrezioni scelse sempre giovani, perché provocavano maggior emozione e destavano più grande risonanza. Da Atena aveva ricevuto in dono due fiale contenenti il sangue della Gorgonie Medusa: con quella che conteneva sangue preso dal lato sinistro poteva resuscitare i morti, con quella contenente sangue del lato destro poteva dare morte istantanea Con la prima strappò dal regno dei morti Licurgo, Carpaneo e Tindareo, facendosi sempre pagare le resurrezioni con oro zecchino; nel timore che il sangue finisse, ne faceva un uso assai parsimonioso, riservato a casi particolari. A Glauco, figlio di Minasse, ridette la vita con un’erba con un’erba che gli era stata indicata dall’inseparabile serpente. Se Chitone fu l’ideatore dell’eutanasia, Asclepio fu l’inventore della rianimazione, arte assai più prestigiosa e remunerativa oltre che ben accetta da tutti e scevra da problemi etici. Almeno così la pensava Asclepio che, invece, una volta tanto sbagliò, perché fu proprio la capacità di ridare la vita ai morti la causa della sua fine prematura.
La carriera di Asclepio