Infarto miocardico senza fattori di rischio modificabili: una popolazione ancora poco conosciuta.
di Filippo Brandimarte
12 Aprile 2021

Nelle sindromi coronariche acute il controllo dei fattori di rischio modificabili (FRM) come il diabete, l’ipercolesterolemia, l’ipertensione e l’abitudine tabagica ha determinato un netto miglioramento della prognosi a medio-lungo termine. (1) Tuttavia una parte non trascurabile di pazienti colpiti da infarto miocardico non presentano tali FRM. Questa particolare popolazione di pazienti, nonostante sembri avere una mortalità intraospedaliera più alta rispetto alla popolazione degli infartuati con almeno un fattore di rischio, appare essere anche poco studiata nei grandi trial anche se, in effetti, sia più che raddoppiata negli ultimi anni. (2-5)

Recentemente sono stati pubblicati su Lancet i dati di un’analisi probabilmente del più grande registro di pazienti con infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI) che fornisce un’opportunità unica di meglio caratterizzare i pazienti infartuati che non presentano FRM. (6) Lo SWEDEHEART è appunto un registro svedese che ha studiato retrospettivamente 62.048 pazienti con STEMI di età media intorno a 68 anni con (n=52.820) o senza FRM (n=9228). Circa i 2/3 dei soggetti era di sesso maschile (n=41.664). Il più comune FRM è risultato essere l’ipertensione (70%), seguita dall’ipercolesterolemia (48%), abitudine tabagica (32%) e diabete (22%). L’endpoint primario dello studio era mortalità per tutte le cause a 30 giorni dall’evento acuto. Endpoint secondari erano gli eventi avversi cardiovascolari maggiori (MACE, definiti come un endpoint composito di morte per tutte le cause, infarto miocardico ricorrente, ictus, scompenso cardiaco, mortalità cardiovascolare, reospedalizzazione per scompenso cardiaco, rivascolarizzazione coronarica, sanguinamenti maggiori e shock cardiogeno intraospedaliero). Sono stati esclusi i pazienti che avevano una malattia coronarica nota prima del ricovero per STEMI. Sono stati ottenuti dati durante il ricovero, a 30 giorni, 5 anni e al termine del follow-up di ben 12 anni.

Il primo dato importante che emerge dallo studio è senz’altro che lo STEMI senza FRM non è un’evenienza rara, raggiungendo in questa coorte il 15% dei soggetti. Inoltre, questa sottopopolazione di pazienti è composta più frequentemente da individui di sesso maschile (17% vs 10% rispettivamente per il sesso maschile e femminile, p<0.001) ed hanno una più alta probabilità di presentazione con arresto cardiaco. Nonostante un tempo pre-coronarico più breve (circa 12 min mediamente in meno rispetto alla popolazione con STEMI e FRM) questi soggetti avevano più alti valori di troponina ed una più marcata disfunzione sistolica all’esordio. Allo studio emodinamico era presente più difficilmente una coronaropatia multivasale, mentre si osservava più spesso un interessamento della discendente anteriore e una dissezione coronarica spontanea (rilevabile quest’ultima nel 1.7% vs 0.8% dei casi, p<0.0001). Un altro dato interessante è che il braccio con STEMI senza FRM aveva una probabilità significativamente inferiore di ricevere farmaci che notoriamente migliorano gli outcomes nel post infarto come gli ACE inibitori/sartani (75% vs 82%, p<0.0001), statine (85% vs 88%, p<0.0001), e beta-bloccanti (88% vs 91%, p<0.0001). Questa disparità di trattamento era ancora più evidente per i soggetti di sesso femminile. La mortalità intrasopedaliera è risultata essere più alta nel gruppo senza FRM rispetto al braccio con almeno 1 FRM (9.6% vs 6,5%, p<0.0001) come anche la percentuale di shock cardiogeno (6.3% vs 4.1%, p<0.0001). I predittori di mortalità più importanti dall’analisi di regressione sono risultati l’appartenenza al braccio senza FRM, il sesso femminile, la funzione sistolica inferiore al 40%, l’esordio con arresto cardiaco, età avanzata, l’ipotensione, la tachicardia ed alti valori di creatinina.   A 30 giorni la situazione non cambia: il gruppo senza FRM presenta tassi di mortalità per tutte le cause significativamente più alti (11.3 vs 7.9, p<0.0001), guidata prevalentemente dalla mortalità cardiovascolare. Ancora una volta le differenze tra i due gruppi (con FRM vs senza FRM) erano più evidenti nel sesso femminile (17.6% vs 11.2%). A 5 anni e al termine del follow-up persistono queste differenze tra i 2 gruppi ma le curve indicano che la maggiore differenza è localizzata temporalmente nei primi 30 giorni.

I dati quindi sembrerebbero confermare che lo STEMI senza FRM è un evento che negli anni sta diventando più frequente e individua una coorte di soggetti con una più alta mortalità specie intraospedaliera e nel breve periodo (30 giorni) ma anche nel lungo periodo e specie nel sesso femminile. Questo comportamento può essere spiegato, almeno in parte, dalla probabilità inferiore che ha questa coorte di ricevere terapie durante il ricovero e alla dimissione che hanno dimostrato di migliorare gli outcomes nel post infarto. Inoltre, l’incremento della mortalità in questa popolazione, in assenza di aumento dei tassi di infarto miocardico o scompenso cardiaco, suggerisce la presenza di eventi aritmici come possibile causa dei decessi. Sembra quindi giustificato implementare sistematicamente tutte le classi farmacologiche a disposizione tra cui anche gli antialdosteronici (non espressamente menzionati nel registro SWEDEHEART) che sono noti avere delle importanti proprietà antiaritmiche. Il ruolo di questa classe di farmaci di prevenzione della fibrosi può essere prezioso proprio nel mese successivo all’infarto. Si noti, peraltro, come molti pazienti con bassa frazione d’eiezione post infarto ed a rischio di aritmie, vengano abitualmente trattati con il defibrillatore solo in fase successiva (dopo il primo mese). (7) Gli attuali modelli di rischio sembrano avere dei limiti nei pazienti con STEMI senza FRM specie nel sesso femminile contribuendo a sottovalutare e sotto-trattare questi soggetti. In quest’ottica va ricordato un importante position paper dell’ESC, che ha sottolineato l’importanza di effettuare ricerca traslazionale di genere per identificare nuovi markers di rischio che aiutino a migliorare la prognosi. (8)

 

Bibliografia

  1. Piepoli MF, Hoes AW, Agewall S, et al. 2016 European guidelines on cardiovascular disease prevention in clinical practice: the sixth joint task force of the European Society of Cardiology and other societies on cardiovascular disease prevention in clinical practice (constituted by representatives of 10 societies and by invited experts). Developed with the special contribution of the European Association for Cardiovascular Prevention and Rehabilitation (EACPR). Eur Heart J 2016; 37: 2315–81.
  2. Vernon ST, Coffey S, Bhindi R, et al. Increasing proportion of ST elevation myocardial infarction patients with coronary atherosclerosis poorly explained by standard modifiable risk factors. Eur J Prev Cardiol 2017;24:1824–30.
  3. Vernon ST, Coffey S, D’Souza M, et al. ST-segment-elevation myocardial infarction (STEMI) patients without standard modifiable cardiovascular risk factors—how common are they, and what are their outcomes? J Am Heart Assoc 2019; 8:
  4. Wang JY, Goodman SG, Saltzman I, et al. Cardiovascular risk factors and in-hospital mortality in acute coronary syndromes: insights from the Canadian Global Registry of Acute Coronary Events. Can J Cardiol 2015; 31: 1455–61.
  5. Canto JG, Kiefe CI, Rogers WJ, et al. Number of coronary heart disease risk factors and mortality in patients with first myocardial infarction. JAMA 2011; 306: 2120–27.
  6. Figtree GA, Vernon ST, HAdziosmanovic N et al. Mortality in STEMI patients without standard modifiable risk factors: a sex-disaggregated analysis of SWEDEHEART registry data. Lancet 2021;397:1085-1094.
  7. Brandimarte F, Blair JE, Manuchehry A et al. Aldosterone receptor blockade in patients with left ventricular systolic dysfunction following acute myocardial infarction. Cardiol Clin. 2008;26:91-105.
  8. Perrino C, Ferdinandy P, Bøtker HE, et al. Improving translational research in sex-specific effects of comorbidities and risk factors in ischaemic heart disease and cardioprotection: position paper and recommendations of the ESC working group on cellular biology of the heart. Cardiovasc Res 2021;
    117: 367–85.