INFARTO MIOCARDICO ACUTO COMPLICATO DA SHOCK CARDIOGENO. Ampia sintesi dello Statement Scientifico dell’American Heart Association
di Alessandro Battagliese
20 Aprile 2021

Lo shock cardiogeno (CS) è caratterizzato dalla incapacità del cuore di assicurare una portata cardiaca sufficiente a soddisfare il fabbisogno metabolico dell’organismo causata da una patologia cardiaca primitiva.

La principale causa di CS è l’infarto miocardico acuto (IMA). Dati di letteratura indicano una incidenza di circa il 7-10% di CS quale complicanza di infarto miocardico a ST persistentemente elevato.

Clinicamente è caratterizzato da ipotensione, tachicardia, vasocostrizione periferica, congestione polmonare e sistemica, oligo-anuria, alterazione dello stato mentale, acidosi lattica e disfunzione multiorgano (principalmente a carico di fegato e reni).

È una condizione gravata da elevata mortalità che varia tra il 40 ed il 45% (a 30 gg) nonostante l’iniziale beneficio ottenuto dalla rivascolarizzazione precoce, documentato nello SHOCK trial e nonostante l’utilizzo sempre più diffuso di supporto circolatorio meccanico.

La mortalità è rimasta elevata anche in chi sopravvive all’evento acuto e viene dimesso vivo dall’ospedale come documentato nel registro ACTION con una mortalità di circa 10% a 60gg e di circa il 20% ad 1 anno.

Definizione e classificazione

Ci sono definizioni molto eterogenee a causa della dinamicità del quadro clinico che spesso ha un andamento progressivo ed inesorabile dalla fase preclinica a quella terminale.

Il registro statunitense CathPCI definisce lo shock come una sindrome caratterizzata da una riduzione della pressione arteriosa al di sotto di 90 mmhg per più di 30 minuti associata ad un indice cardiaco < 2,2 L/min/m2, secondaria a disfunzione cardiaca che rende necessaria l’utilizzo di farmaci inotropi, vasopressori o di supporto meccanico. Altri registri utilizzano come definizione una persistente ipotensione con pressione sistolica < 80 mmhg nonostante terapia con vasopressori.

Nel 2019 la SCAI (Society for Cardiovascular Angiography and intervention) con l’approvazione delle maggiori società scientifiche americane pubblica un documento di consenso in cui riclassifica lo Shock cardiogeno in 5 stadi utilizzando sia dati clinici che emodinamici, biomarcatori e dati di laboratorio:

  • Stadio A: pazienti a rischio, senza segni e sintomi di shock ma ad elevato rischio di svilupparlo. Sono pazienti in genere con infarto miocardico acuto esteso o con pregresso infarto e scompenso cardiaco cronico. In questo stadio non sono presenti segni clinici di ipoperfusione periferica né congestione venosa sistemica o polmonare. Non è presente acidosi lattica, con una pressione generalmente superiore a 100 mmHg, un indice cardiaco > 2,5 L/min/m2, una pressione venosa centrale inferiore a 10 cmH2O e una saturazione venosa in arteria polmonare > 65%.
  • Stadio B: CS iniziale caratterizzato da lieve ipotensione, tachicardia senza ipoperfusione periferica, presenza di congestione venosa sistemica o polmonare (giugulostasi o rantoli polmonari), lattati normali, BNP elevato, pressione arteriosa sistolica < 90 mmhg (o caduta persistente della stessa di 30 mmhg), frequenza cardiaca > 100 bpm, pressione arteriosa media < 60 mmHg, indice cardiaco > 2,2 l/min/m2, saturazione sangue venoso misto in arteria polmonare (PA) > 65%.
  • Stadio C: CS classico caratterizzato da ipoperfusione periferica con necessità di terapia con vasopressori, inotropi o supporto meccanico nonostante carico volemico, presenza di marcata congestione sistemica e polmonare, alterazione dello stato di coscienza, oligo-anuria (< 30 ml/h), aumento dei lattati (> 2), peggioramento della funzione renale (aumento del 100% della creatinina o caduta > 30% del filtrato glomerulare), elevazione del BNP, indice cardiaco < 2,2 ml/min/m2, aumento della pressione di incuneamento capillare (Wedge pressure) > 15 mmHg, aumento della pressione atriale destra, riduzione del cardiac power output (< 0,6) e del indice pulsatorio dell’arteria polmonare (PAPI) < 1,85.
  • Stadio D: CS in fase di deterioramento caratterizzata da tutte le caratteristiche dello stadio C ma che non risponde alla terapia iniziale di supporto con vasopressori ed inotropi e che necessita di approccio farmacologico multiplo (2 o più vasopressori/inotropi) e di un supporto meccanico al circolo.
  • Stadio E: CS in fase terminale (estrema) caratterizzato da numerosi episodi di arresto cardiaco nonostante supporto meccanico e farmacologico massimale, in ventilazione meccanica, con lattati persistentemente elevati (> 5) e persistente acidosi. Sono pazienti caratterizzati da ipotensione refrattaria, tachiaritmie ventricolari incessanti o dissociazione elettromeccanica.

La caratteristica principale di questa classificazione è la dinamicità e l’integrazione di parametri clinico-strumentali, laboratoristici ed emodinamici.

Altra peculiarità è l’introduzione di un concetto molto importante: l’arresto cardiaco quale evento in grado di modificare in senso peggiorativo la traiettoria di malattia e la prognosi del paziente a prescindere dallo stadio di shock, della durata e delle caratteristiche.

Di conseguenza, un paziente può trovarsi nello stadio B(A) shock, se si presenta con fibrillazione ventricolare nel contesto di un infarto, anche se stabilizzato rapidamente con pronta defibrillazione ed avere una prognosi peggiore rispetto ad un paziente con solo CS.

Questa classificazione appare uno strumento di stratificazione molto utile ma andrà validato in successivi studi per poter essere utilizzato in algoritmi diagnostico-terapeutici, incluso il ricorso ad assistenza meccanica precoce o il monitoraggio invasivo del paziente.

Stabilizzazione iniziale

Il primo obiettivo terapeutico è la stabilizzazione del paziente.

L’utilizzo di farmaci vasopressori è finalizzato al mantenimento di una sufficiente pressione di perfusione. Andrà utilizzato il minimo dosaggio efficace a ottenere una pressione arteriosa media > 65 mmHg. Il farmaco di prima linea raccomandato è la noradrenalina. Trattamenti alternativi andranno valutati in base alle circostanze cliniche. In caso di bradicardia è più indicato l’utilizzo di dopamina o adrenalina. In presenza di ostruzione dinamica nel tratto di efflusso del ventricolo sinistro andrà preferito un vasopressore puro come la fenilefrina o la vasopressina; in caso di persistente acidosi o ipossiemia refrattaria in grado di attenuare la risposta ai vasopressori catecolaminergici appare più indicato l’utilizzo di vasopressina.  Da evitare l’utilizzo di vasopressori o inotropi ad alto dosaggio perchè associato ad aumento della mortalità in studi osservazionali.

È ancora oggetto di studio l’utilità degli agenti inotropi come levosimandan, dobutamina e milrinone in questo contesto, per il possibile effetto peggiorativo sul consumo miocardico di ossigeno.

Lo shock cardiogeno predispone all’ipossiemia sia per la presenza di edema polmonare che per l’acidosi lattica e l’insufficienza renale con elevato rischio di grave distress respiratorio. L’aumento del lavoro respiratorio e l’acidosi metabolica possono contribuire alla progressione dello shock. L’utilizzo precoce di supporto alla ventilazione mediante intubazione faciliterebbe la rivascolarizzazione coronarica attraverso il miglioramento degli scambi respiratori, dell’acidosi e attraverso una migliore sedazione.

I pazienti con infarto miocardico e shock cardiogeno in fase A e B possono generalmente essere indirizzati immediatamente in sala di emodinamica mentre i pazienti in fasi più avanzate di shock (C-E) necessitano di una iniziale fase di stabilizzazione clinica finalizzata ad assicurare una sufficiente pressione di perfusione, una correzione dell’equilibrio acido-base ed una adeguata ossigenazione.

Pazienti selezionati in fase di shock terminale (stadio E) andranno indirizzati alle cure palliative.

Valutazione diagnostica

L’esame fisico del paziente dovrà valutare la presenza di congestione sistemica o polmonare, ipoperfusione periferica e la presenza di soffi cardiaci causati da possibili complicanze meccaniche dell’infarto come la rottura di muscolo papillare o difetto del setto interventricolare.

L’ecocardiogramma va effettuato al più presto possibile, anche durante lo studio emodinamico,  al fine di valutare gli indici di funzione ventricolare destra e sinistra, la presenza di valvulopatie, di versamento pericardico tamponante e la eventuale presenza di complicanze meccaniche post-infartuali. Andrà esclusa anche la presenza di trombosi endocavitaria.

Il cateterismo destro permette di ottenere numerose informazioni quantitative in grado di caratterizzare emodinamicamente il paziente in shock. È possibile calcolare la pressione venosa centrale, la portata cardiaca, il “cardiac power output” (indice molto semplice calcolato moltiplicando la portata cardiaca per la pressione arteriosa media e dividendo il prodotto per una costante pari a 451), la saturazione di ossigeno nel sangue venoso misto (indice indiretto della gravità dello shock), l’indice di pulsatilità dell’arteria polmonare. Questi dati sono molto importanti nelle fasi precoci dello shock soprattutto per distinguere pazienti ipotesi ma normoperfusi da pazienti normotesi ma ipoperfusi.

Tuttavia nessun trial randomizzato è stato effettuato per validare l’impiego routinario del cateterismo cardiaco nello shock cardiogeno, il timing o interventi specifici basati su profili emodinamici invasivi.

Assistenza meccanica al circolo

Il razionale dell’impiego precoce del supporto meccanico nel paziente con shock cardiogeno è quello di scaricare il ventricolo, riducendone il lavoro, aumentare la perfusione periferica e coronarica è supportare il circolo in corso di procedura di angioplastica.

L’utilizzo di un supporto meccanico nel paziente con persistente ipoperfusione ed ipotensione, necessità di terapia con vasopressori, un cardiac power output < 0,6 watt nonostante adeguate pressioni di riempimento, potrebbe essere di aiuto nello stabilizzare il paziente prima di una procedura di rivascolarizzazione coronarica.

Nei pazienti con disfunzione prevalentemente sinistra i sistemi di assistenza meccanica al circolo sono rappresentati prevalentemente dal contropulsatore aortico, dalla pompa a flusso assiale transvalvolare (Impella), dal TandemHeart percutaneo (device per assistenza del ventricolo sinistro LVAD) e dall’ECMO veno-arterioso (VA).

In presenza di prevalente disfunzione ventricolare destra sono disponibili per l’assistenza al circolo la pompa a flusso assiale transvalvolare (Impella) per il ventricolo destro e il VAD percutaneo per il ventricolo destro TandemHeart Protek-Duo. Pazienti con disfunzione biventricolare possono essere supportati con VA-ECMO e Impella bilateralmente.

Quale supporto meccanico scegliere?

Il trial IABP-Shock II ha randomizzato 600 pazienti con shock cardiogeno ed infarto miocardico acuto a contropulsatore o a strategia conservativa. Non è stato documentato alcun beneficio del contropulsatore in termini di mortalità a 30gg, né in termini di durata di degenza, disfunzione renale e livelli di lattati.  Tuttavia i risultati sembrerebbero influenzati dal fatto che il contropulsatore veniva impiegato dopo la procedura di rivascolarizzazione coronarica e non a supporto e la diversa severità degli shock nella popolazione arruolata.

Studi clinici randomizzati di confronto tra diversi sistemi di assistenza meccanica al circolo non hanno documentato la superiorità di un sistema rispetto all’altro in termini di sopravvivenza ma sono studi piccoli e con scarso potere statistico.

Studi osservazionali hanno fornito risultati molto contrastanti.

Il Detroit Cardiogenic Shock Iniziative ha incoraggiato un utilizzo precoce dell’assistenza meccanica prevalentemente con Impella nell’infarto miocardico acuto complicato da CS prima della procedura di rivascolarizzazione coronarica riportando percentuali molto elevate di sopravvivenza (85%) dopo rimozione del supporto meccanico.

Nel registro danese RETROSHOCK i pazienti con CS trattati precocemente con Impella avevano una mortalità inferiore rispetto ai pazienti trattati in maniera conservativa. Questi dati contrastano con quelli del registro Europeo multinazionale il cui pazienti con CS trattati precocemente con Impella venivano confrontati con la popolazione dello studio IABP-Shock II senza documentare alcuna differenza significativa in termini di mortalità a 30gg ma con un incremento delle complicanze vascolari e settiche nel gruppo Impella.

E’ in corso il DanGer trial, uno studio multicentrico prospettico finalizzato al confronto di Impella CP vs terapia convenzionale in pazienti con IMA e CS, così come sono in corso numerosi studi sull’utilizzo dell’ECMO in questo setting di pazienti allo scopo di uniformare il trattamento dello shock cardiogeno in corso di IM acuto.

Due recenti registri sembrerebbero invece dimostrare un aumento dei sanguinamenti maggiori e della mortalità ospedaliera nei pazienti trattati con Impella rispetto a quelli trattati con contropulsatore aortico.

In assenza di forti evidenze scientifiche a supporto è importante individualizzare il trattamento prendendo in considerazione il meccanismo dello shock e valutando i fattori che possano suggerire un beneficio nell’utilizzo precoce di supporto meccanico al circolo quali una persistente instabilità emodinamica, elettrica e respiratoria nonostante le terapie iniziali, la presenza di severa disfunzione ventricolare sinistra e di una severa anatomia coronarica, e elementi a sfavore tipo una bassa expertise degli operatori con l’utilizzo dei device di assistenza, la presenza di accessi arteriosi sfavorevoli e il rischio di ritardare la riperfusione coronarica (questione ancora molto dibattuta).

Andrà valutato il tipo di supporto emodinamico necessario, la presenza di concomitante insufficienza respiratoria e il tipo di accessi arteriosi del paziente.

Nonostante di dati contrastanti di letteratura e al netto delle complicanze possibili quali sanguinamento, emolisi, complicanze vascolari, ischemia periferica dell’arto e della complessità della gestione dei device post impianto, in centri specializzati e con buona expertise degli operatori con attenta gestione della scoagulazione del paziente  appare ragionevole l’impianto di un supporto di sistemi di assistenza meccanica al circolo in pazienti con shock cardiogeno iniziale o conclamato, prima della procedura di rivascolarizzazione coronarica soprattutto in presenza di persistente instabilità emodinamica nonostante terapia medica aggressiva.

Rivascolarizzazione coronarica e terapia antiaggregante

Lo SHOCK trial ha documentato un chiaro beneficio della rivascolarizzazione coronarica precoce nei pazienti con IMA complicato da CS in termini di riduzione della mortalità a 6 mesi  e nel follow up a lungo termine con un NNT pari a 8 rispetto ad una strategia iniziale conservativa. Diversi registri hanno confermato questi dati. La rivascolarizzazione coronarica precoce è diventata la strategia più importante nel trattamento dell’IMA complicato da CS.

Relativamente al tipo di rivascolarizzazione l’angioplastica coronarica è sicuramente la modalità di rivascolarizzazione di scelta.

Nell’IABP-Shock trial e nel medesimo registro solo il 4% dei pazienti veniva indirizzato a by-pass. La strategia chirurgica è un’opzione nei casi di insuccesso dell’angioplastica (condizione gravata da elevata mortalità), di anatomia coronarica sfavorevole e soprattutto in presenza di complicanze meccaniche. Altra opzione valida è rappresentata da un approccio ibrido caratterizzato dall’angioplastica con o senza stent del vaso colpevole e successiva rivascolarizzazione chirurgica nei pazienti con malattia multivasale complessa con o senza diabete. La terapia fibrinolitica ha scarsa efficacia nello shock cardiogeno e va riservata per quei pazienti per i quali non è possibile trasferire il paziente in centri dotati di emodinamica per grave instabilità clinica o per inaccettabile ritardo ed in assenza di controindicazioni. Il paziente comunque andrà trasferito appena possibile dopo lisi.

Nel 70-80% di casi il paziente con IMA e CS presenta una malattia coronarica multivasale che ne aumenta sensibilmente il rischio di morte.

Lo studio CULPRIT-SHOCK , il più numeroso trial randomizzato, ha studiato circa 700 pazienti con infarto miocardico (66% con ST elevato) trattati con angioplastica coronarica (PCI) e ha dimostrato una riduzione significativa della mortalità a 30 giorni o del ricorso a terapia sostitutiva renale (end point primario) con una strategia basata sul trattamento della singola lesione colpevole (con un’opzione per la rivascolarizzazione in seconda battuta delle lesioni coronariche aggiuntive) rispetto ad angioplastica multivasale (45,9% contro 55,4%; rischio relativo, 0,83 [IC 95%, 0,71-0,96]; P = 0,01), endpoint guidato principalmente da una riduzione assoluta dell’8,2% della mortalità. Questi risultati sono stati ulteriormente supportati da una riduzione sostenuta dello stesso end point composito al follow-up di 1 anno. I risultati erano coerenti in tutti i sottogruppi predefiniti, inclusi i pazienti con arresto cardiaco extraospedaliero.

Pertanto nella stragrande maggioranza dei pazienti con IMA e CS, la PCI dovrebbe essere limitata alla lesione colpevole con possibile rivascolarizzazione “staged” delle restanti lesioni coronariche. Tuttavia, il ruolo della PCI multivaso dell’IMA con CS rimane oggetto di studio. Dati recenti del Korea Acute Myocardial Infarction National Health Registry hanno mostrato che la PCI multivaso in un follow up di 3 anni si associa a un rischio inferiore di morte per tutte le cause rispetto alla PCI del solo vaso colpevole, suggerendo un possibile beneficio a lungo termine della rivascolarizzazione della lesione non colpevole durante il ricovero indice.

Casi angiografici selezionati come lesioni subtotali non della lesione colpevole con flusso TIMI (Thrombolysis in Myocardial Infarction) ridotto o possibili lesioni colpevoli multiple possono trarre vantaggio da PCI multivaso immediata.

Per quanto riguarda la terapia antiaggregante, lo shock cardiogeno è un potente predittore di trombosi di stent. La presenza di disfunzione o occlusione microvascolare, l’attivazione piastrinica, le anomalie della perfusione coronarica in corso di shock cardiogeno, il burden trombotico elevato, possibili alterazioni farmacocinetiche (ad es. l’assorbimento) e farmacodinamiche della terapia antitrombotica sono alcune delle cause di aumentato rischio di trombosi di stent in questi pazienti.

Nonostante non esistano trial clinici randomizzati specifici, è ragionevole l’utilizzo di farmaci antitrombotici potenti come gli inibitori orali del recettore P2Y12 di terza generazione (ticagrelor/prasugrel) anche attraverso il sondino naso-gastrico e l’utilizzo del cangrelor soprattutto in virtù della sua rapida reversibilità anche in presenza di insufficienza epatica e/o renale che ne aumenta la sicurezza.

Possibile anche in casi selezionati l’utilizzo degli inibitori della glicoproteina IIb/IIIa anche se la loro sicurezza non è stata documentata nel paziente con IMA e CS.

L’infarto miocardico acuto complicato da shock cardiogeno è un’entità clinica complessa e rappresenta la principale causa di morte dopo IM. Le decisioni terapeutiche prese nella gestione invasiva precoce possono avere implicazioni significative per la progressione dello shock, la sopravvivenza del paziente e gli esiti in generale. L’ottimizzazione dell’assistenza richiede uno sforzo di squadra multidisciplinare per coordinare la valutazione precoce e il triage (compreso il possibile trasferimento interospedaliero), la diagnostica non invasiva e invasiva, la rivascolarizzazione coronarica e la gestione della terapia intensiva continua da parte di esperti, inclusa una comprensione della peculiare evolutività  patofisiologica ed emodinamica dello shock cardiogeno in corso di infarto miocardico acuto.

Al momento i dati disponibili sono talora contrastanti o poco standardizzati per cui molto spesso la gestione dello shock cardiogeno è molto variegata da centro a centro.

Occorreranno ulteriori studi finalizzati alla validazione in primis del sistema di classificazione e successivamente alla creazione di algoritmi diagnostici e terapeutici condivisi, in particolare sul corretto timing per un eventuale supporto meccanico al circolo e del tipo di supporto meccanico da scegliere in base al profilo emodinamico del paziente.

 

Bibliografia consigliata

 

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