Battagliese: Professor Borghi oggi è molto importante fenotipizzare il paziente allo scopo di fornire una terapia “sartoriale”. Questa è una pratica molto utilizzata nello scompenso cardiaco. E per le dislipidemie?
Borghi: L’attuale approccio step-up nella terapia delle dislipidemie punta a ridurre la quota di colesterolo LDL al di sotto di una soglia che varia in base alla categoria di rischio del paziente, con un approccio farmacologico che vede le statine come caposaldo fondamentale. Benché assolutamente funzionale nel ridurre gli eventi cardiovascolari, tale algoritmo terapeutico non prende ancora in considerazione quelle che sono le innumerevoli variabili fenotipiche che possiamo ritrovare nei soggetti dislipidemici. La sempre più fine comprensione dei meccanismi fisiopatologici alla base delle dislipidemie in combinazione con le novità ottenute mediante la genotipizzazione del DNA permetterà, in un futuro prossimo, l’elaborazione di una terapia “su misura” per ogni categoria di pazienti.
Battagliese: Quindi bisognerebbe andare oltre l’LDL?
Borghi: L’ottenimento di una determinata concentrazione sierica di colesterolo LDL rappresenta, da sempre, il principale bersaglio terapeutico dei farmaci ipolipemizzanti disponibili, ma non solo: il raggiungimento di un valore di colesterolo LDL al di sotto del target determinato dalla classe di rischio mediante un approccio sequenziale parrebbe essere l’unico obiettivo che i clinici tendono a perseguire, non considerando le innumerevoli variabili che potrebbero modificare la strategia terapeutica da adottare.
Il colesterolo LDL (LDL-C), la principale lipoproteina contenente Apo B circolante, rappresenta attualmente il bersaglio cardine della maggioranza di terapie ipolipemizzanti disponibili; questo poiché da un lato è presente una vasta mole di letteratura concorde nell’associare la concentrazione sierica di tale molecola al rischio di malattia cardiovascolare, dall’altro vi è evidenza di come una riduzione di LDL-C si associ una consensuale minor incidenza di eventi cardiovascolari. In particolare, ad ogni calo di 39 mg/dL di LDL-C si associa una diminuzione del 21% di eventi cardiovascolari.
Recentemente anche i trigliceridi, inizialmente considerati come “attori secondari”, sono tornati al centro dell’attenzione: rispetto a soggetti con una concentrazione di trigliceridi inferiore a 90 mg/dL, è stato dimostrato come al crescere di tale valore vi sia un aumento di incidenza di infarto miocardico, angina instabile e necessità di rivascolarizzazione, fino a raggiungere un rischio superiore al 52% nei soggetti con un valore superiore ai 354 mg/dL (HR 1.52, 95% CI: 1.36-1-71, p < 0.0001). Analogamente, nel PROVE IT-TIMI trial è emerso come, nei pazienti in terapia con statine a seguito di un evento cardiovascolare, una riduzione della concentrazione di trigliceridi inferiore a 150 mg/dL sia associata ad una riduzione del rischio di malattia coronarica ischemica in maniera indipendente rispetto ai livelli di LDL-C; in particolare, per ogni riduzione di 10 mg/dL della concentrazione di trigliceridi è stata osservata una riduzione del 1.6% nell’endpoint composito (p < 0.001).
Infine, non ultima per importanza, troviamo la Lipoproteina (a) [Lp(a)]: trattasi di una lipoproteina LDL-like sintetizzata dal fegato contenente Apo B 100 legata alla Apoliproproteina (a). La produzione di tale molecola è largamente sotto il controllo genetico e un aumento della sua concentrazione plasmatica si associa ad un progressivo aumento di rischio cardiovascolare dato dalle sue proprietà pro-aterogene, pro-infiammatorie e pro-trombotiche, indipendentemente dalla concentrazione di LDL-C.
Battagliese: Gli studi condotti nei pazienti affetti da ipercolesterolemia familiare hanno introdotto il concetto di esposizione cumulativa, che i clinici devono considerare nell’approccio al paziente dislipidemico. Può spiegare meglio questo concetto? Quando dobbiamo iniziare la terapia ipolipemizzante?
Borghi: Non è sufficiente valutare unicamente la concentrazione di colesterolo totale e di LDL-C, ma sarà necessario tenere in considerazione da quanto tempo il paziente è esposto a determinati livelli di colesterolo, ad esempio: un soggetto affetto da ipercolesterolemia familiare omozigote inizierà a sviluppare i segni di malattia coronarica ischemica a 12.5 anni, mentre un paziente con ipercolesterolemia familiare eterozigote raggiungerà il burden di colesterolo necessario per sviluppare malattia coronarica ischemica a 35 anni in assenza di trattamento; tale storia naturale può essere modificata dalla decisione tempestiva di intraprendere una terapia ipolipemizzante. Pencina et al. hanno ipotizzato come un approccio terapeutico aggressivo intrapreso precocemente in età adulta, specialmente in tutti i soggetti con valori di colesterolo non HDL > 160 mg/dL, possa ridurre in maniera significativa il rischio a medio-lungo termine di malattia cardiovascolare: iniziare una terapia ipolipemizzante in un paziente di età compresa tra i 40 e i 49 anni con un valore di colesterolo non-HDL > 160 mg/dL ridurrebbe il rischio di malattia cardiovascolare a 30 anni dal 17.1% fino al 6.5%.
Battagliese: Cosa dicono le linee guida, Professore?
Borghi: Secondo le ultime linee guida ESC 2019, la terapia ipolipemizzante va ottimizzata sulla base del rischio cardiovascolare calcolato mediante SCORE, dei livelli di LDL-C e della presenza o meno di: diabete mellito con o senza danno d’organo, ipertrigliceridemia (definita come una concentrazione di trigliceridi > 310 mg/dL), LDL-C marcatamente elevato (> 190 mg/dL), presenza di ipertensione arteriosa sistemica con valori ≥ 180/110 mmHg, presenza di ipercolesterolemia familiare, malattia renale cronica moderata o severa ed evidenza clinica o mediante imaging di malattia aterosclerotica cardiovascolare. In base alle combinazioni di tali parametri verranno definite le categorie di rischio con il rispettivo target di LDL-C, ovvero: rischio basso (LDL-C < 116 mg/dL); rischio moderato (LDL-C < 100 mg/dL); rischio elevato (LDL-C < 70 mg/dL); rischio molto elevato (LDL-C 55 < mg/dL, fino a < 40 mg/dL). L’approccio successivo prevede, in caso di indicazione a terapia farmacologica ipolipemizzante, l’impiego di una statina ad alta potenza alla massima dose tollerabile; seguirà, successivamente, l’eventuale aggiunta di ezetimibe qualora i livelli di LDL-C non fossero ancora ottimali per la categoria di rischio del paziente e, come ultima risorsa, l’impiego di inibitori di PCSK9 (PCSK9i).
Battagliese: Ma come si può personalizzare questo approccio seguendo un razionale che tenga in considerazione il fenotipo di ogni paziente e il meccanismo farmacodinamico dei medicinali che abbiamo a disposizione?
Borghi: Elencherò, di seguito, i farmaci che i clinici moderni hanno a disposizione oltre le “classiche” statine e le categorie di pazienti nelle quali queste molecole possono soddisfare, in alcuni casi, tale necessità:
Ezetimibe
Il meccanismo d’azione dell’ezetimibe risiede nell’inibizione di una proteina responsabile della regolazione dell’assorbimento di colesterolo a livello intestinale, la proteina Niemann-Pick C1-like 1 (NPC1L1). Come conseguenza, la quota di colesterolo che giungerà al fegato sarà ridotta; ne deriverà una maggior espressione dei recettori per le LDL sugli epatociti e una conseguente riduzione di LDL-C. In media, l’aggiunta di 10 mg di ezetimibe a una terapia ipolipemizzante con una statina è efficace nel ridurre la quota di LDL-C del 23-24%, e rappresenta il secondo step terapeutico nell’algoritmo ESC.
Nei soggetti affetti da diabete mellito tipo II, ad esempio, è stata dimostrata una upregulation di NPC1L1 mRNA intestinale con possibile conseguente incremento nell’assorbimento di colesterolo biliare e di colesterolo intestinale di nuova sintesi. Tali considerazioni hanno portato all’analisi dell’efficacia di ezetimibe combinato con simvastatina versus placebo combinato con simvastatina in un sottogruppo di pazienti diabetici dello studio IMPROVE-IT: è stata osservata una frequenza nell’end point primario composito per morte cardiovascolare, eventi coronarici maggiori e stroke non fatali a 7 anni del 40% versus 45.5% nei pazienti trattati con statina/ezetimibe rispetto a statina/placebo. I pazienti diabetici trattati con statina/ezetimibe hanno presentato degli HR significativamente minori negli end points per infarto miocardico (HR: 0.76; 95% CI: 0.66 – 0.88; p = 0.028), stroke ischemico (HR: 0.61; 95% CI: 0.46 – 0.82; p = 0.031) e il composito per morte cardiovascolare, infarto miocardico o stroke (HR: 0.80; 95% CI: 0.71 – 0.90; p = 0.016) rispetto ai pazienti non diabetici. È interessante notare come la riduzione degli end point primari sia stata evidente e significativa in particolar modo nei pazienti diabetici con età inferiore a 75 anni (HR: 0.87; 95% CI: 0.78 – 0.96; p = 0.008).
Nei pazienti diabetici è dunque razionale ipotizzare come un approccio terapeutico iniziale costituito già da una statina in combinazione con ezetimibe possa risultare vantaggioso.
Inibitori di PCSK9
L’enzima proproteina convertasi subtilisina/kexina tipo 9 (PCSK9) esplica la propria funzione legandosi al recettore del colesterolo LDL (LDLR), mediandone l’endocitosi e la successiva degradazione all’interno delle cellule; ciò si traduce in una riduzione del riassorbimento di LDL-C da parte degli epatociti e un conseguente aumento della quota di colesterolo LDL circolante. Gli inibitori di PCSK9 (PCSK9i) attualmente disponibili in commercio sono degli anticorpi monoclonali che bloccano l’attività di tale enzima, riducendo la quota di LDL-C. In particolare, sia Alirocumab che Evolocumab si sono dimostrati efficaci nel ridurre gli end point compositi per morte cardiovascolare, infarto del miocardio e stroke rispetto a placebo nei trial ODISSEY Outcomes e FOURIER. Attualmente, tali molecole sono raccomandate nei pazienti in prevenzione secondaria come terza linea terapeutica in aggiunta a statina ed ezetimibe in tutti i pazienti che non raggiungono il target ottimale di LDL-C o nei pazienti intolleranti a statine in combinazione con ezetimibe. Sono raccomandati in prevenzione primaria a tutti i pazienti affetti da ipercolesterolemia familiare (FH) a rischio molto elevato che non raggiungono il target ottimale di LDL-C e potrebbero essere presi in considerazione in prevenzione primaria nei pazienti senza FH, a rischio molto elevato, che non raggiungono il target ottimale di LDL-C nonostante una terapia con la massima dose tollerata di statina ed ezetimibe.
Un’ulteriore categoria che potrebbe beneficiare dall’aggiunta precoce di un PCSK9i è rappresentata dai pazienti affetti da arteriopatia periferica (PAD): in questi soggetti le concentrazioni sieriche di PCSK9 si sono rivelate significativamente elevate rispetto ai controlli e un’elevata concentrazione sierica di PCSK9 si è dimostrata fortemente associata al rischio di PAD indipendentemente da età, LDL-C, Lp(a), HDL-C e trattamento con statine (HR: 1.46; 95% CI: 1.05 – 2.06; p = 0.027), seppur il rischio risulti estremamente più elevato se associato ad un’aumentata concentrazione di Lp(a) (HR: 3.35; 95% CI: 1.49 – 7.71; p = 0.0038).
Inoltre, bisogna considerare che statine ed ezetimibe, parte integrante della terapia di molti pazienti con PAD, determinano un aumento della concentrazione sierica di PCSK9 mediato dall’induzione del pathway SREBP-2, che potrebbe in parte contrastare gli effetti sulla riduzione di LDL-C. Nello studio FOURIER è emerso come l’aggiunta di Evolocumab rispetto a placebo abbia ridotto in maniera significativa l’end point primario e il composito di morte cardiovascolare, infarto del miocardio o stroke nei soggetti con e senza PAD; tuttavia, è interessante notare come la riduzione del rischio assoluto fosse maggiore nei pazienti con PAD. È possibile ipotizzare come, trattandosi di pazienti con livelli elevati di PCSK9 ed assumendo in larga misura statine ed ezetimibe, l’aggiunta precoce in terapia di un PCSK9i possa risultare vantaggiosa oltre che logica e appropriata da un punto di vista farmacodinamico.
Nello studio FOURIER è emerso come il rischio di eventi coronarici maggiori fosse più elevato nei pazienti con concentrazioni di Lp(a) oltre il 90th percentile (96 mg/dL). L’utilizzo di Evolocumab, riducendo la concentrazione di Lp(a) in media del 27%, ha ridotto il rischio di morte per eventi cardiovascolari, infarto del miocardio o necessità di rivascolarizzazione coronarica urgente del 16% rispetto a placebo (HR: 0.84; 95% CI: 0.76 – 0.93); tale riduzione del rischio sembrerebbe essere maggiore nei pazienti con livelli di Lp(a) basali più elevati. Il meccanismo tramite il quale i PCSK9i riducono i livelli di Lp(a) non è ancora noto, sebbene alcune evidenze ipotizzino un ruolo sia nell’inibizione della produzione sia nell’aumentata clearance tramite l’upregulation del LDLR.
I livelli di Lp(a) potrebbero dunque essere utilizzati come ulteriore elemento di rischio aggiuntivo nei pazienti dislipidemici, motivando un’introduzione precoce in terapia dei PCSK9i.
Icosapent etile
L’icosapent etile è un estere etilico stabile dell’acido eicosapentaenoico (EPA), un acido grasso omega-3. Nello studio REDUCE-IT è stata indagata l’efficacia di tale molecola nel ridurre il rischio di eventi cardiovascolari in una popolazione di pazienti con ipertrigliceridemia (definita come una concentrazione sierica di trigliceridi a digiuno compresa tra i 135 e i 499 mg/dL) e malattia cardiovascolare nota o affetti da diabete mellito e almeno un ulteriore fattore di rischio cardiovascolare; la somministrazione di 4g/die di icosapent etile ha ridotto del 25% il rischio relativo per l’endpoint composito per morte cardiovascolare, infarto del miocardio non fatale, stroke non fatale, rivascolarizzazione coronarica o angina instabile rispetto a placebo. In particolare, l’end point primario è occorso nel 17.2% dei soggetti in terapia con icosapent etile e nel 22.0% dei pazienti nel gruppo placebo (HR: 0.75; 95% CI: 0.68 – 0.83; p < 0.001). Tutti i pazienti arruolati nello studio erano in terapia con statine da almeno 4 settimane, con una concentrazione di LDL-C variabile tra i 41 mg/dL e i 100 mg/dL. E’ interessante notare come i benefici sul rischio cardiovascolare ottenuti si siano rivelati indipendenti sia dai livelli di trigliceridi ottenuti a 1 anno di distanza dall’inizio del trattamento sia dai livelli di trigliceridi di partenza; tale evidenza suggerisce come l’azione dell’icosapent etile sia svincolata dalla riduzione della concentrazione di trigliceridi e agisca secondo meccanismi ancora non noti, andando così a colmare una necessità terapeutica fondamentale, ovvero la riduzione del rischio cardiovascolare nei soggetti con ipertrigliceridemia: in questa categoria di pazienti potrebbe dunque essere ragionevole iniziare precocemente una terapia con icosapent etile.
Battagliese: E per il futuro cosa dobbiamo aspettarci?
Borghi: Oltre alle classi di farmaci sopracitati, sono in corso innumerevoli trial clinici su differenti molecole che consentiranno un approccio terapeutico “su misura” per ogni categoria di pazienti:
- Pelacarsen, un oligonucleotide antisenso, sarà il primo farmaco mirato alla riduzione dei livelli di Lp(a); la sua efficacia nel ridurre gli eventi cardiovascolari nei pazienti in prevenzione secondaria, oltre alla semplice concentrazione sierica di Lp(a), è attualmente oggetto di studio nel trial HORIZON; tali risultati consentiranno di valutare un’introduzione precoce di tale terapia nei pazienti con elevati livelli di Lp(a).
- Inclisiran, un siRNA progettato per inibire l’RNA messaggero di PCSK9, si è dimostrato efficace nel ridurre la concentrazione di LDL-C. Tale farmaco, dopo somministrazione della seconda e terza dose rispettivamente a 3 e 6 mesi, prevede come mantenimento solamente un’iniezione da praticare ogni 6 mesi; tale approccio consentirà, in particolar modo, di arginare le problematiche legate alla scarsa compliance terapeutica e all’aumentato rischio di morte ed eventi cardiovascolari legato alla variabilità di LDL-C nelle visite di controllo, garantendo un effetto ipolipemizzante duraturo nel tempo. Vale la pena ricordare, infatti, di come nei pazienti in prevenzione secondaria si debba osservare anche la variabilità nei livelli di LDL-C nelle visite di controllo: Bangalore et al. hanno dimostrato come ogni variazione di una deviazione standard sia associata ad un aumento del rischio di morte del 17% (HR: 1.17; 95% CI: 1.08 – 1.25; p < 0.0001), eventi cardiovascolari dell’8% (HR: 1.08; 95% CI: 1.04 – 1.12; p < 0.0001) e stroke del 13% (HR: 1.13; 95% CI: 1.02 – 1.25; p = 0.02). Sono attualmente in corso differenti trial clinici volti a determinare l’efficacia di Inclisiran nel ridurre il rischio cardiovascolare
- Acido bempedoico, un inibitore dell’enzima adenosina trifosfato-citrato liasi (ACL), determina la soppressione della sintesi di colesterolo stimolando l’upregulation di LDLR sugli epatociti con conseguente aumento della clearance ematica di LDL-C. Tale molecola si è dimostrata efficace nel ridurre l’LDL-C nel trial CLEAR Harmony; in particolare, l’assunzione di una dose fissa di acido bempedoico combinato con ezetimibe si è rivelata in grado di ridurre la quota di LDL-C in maniera significativamente maggiore rispetto a placebo (38.0 %, p < 0.001) , ezetimibe da solo (23.2%, p < 0.001) o acido bempedoico da solo (17.2%, p < 0.001). Essendo un farmaco con un meccanismo d’azione differente da statine ed ezetimibe, l’acido bempedoico sarà un’ulteriore arma a disposizione dei clinici, particolarmente utile soprattutto nei pazienti che non raggiungono il target di LDL-C ottimale nonostante terapia massimale o come molecola alternativa in tutti quei soggetti intolleranti a statine.
Infine, non ultime per importanza, meritano di essere menzionate le molecole che agiscono selettivamente sul sistema delle lipoprotein-lipasi: la lipoprotein-lipasi (LPL) è un enzima deputato all’idrolisi dei trigliceridi contenuti nelle lipoproteine circolanti e la sua azione determina un calo dei trigliceridi plasmatici. Tale enzima viene regolato con meccanismo di feedback negativo da ANGPTL4, ANGPTL3 e APOC3, che ne riducono l’attività. L’individuazione di portatori di mutazioni loss of function del gene ANGPTL4 e la scoperta che questi soggetti, così come gli individui con mutazioni gain of function nel gene LPL, abbiano una concentrazione plasmatica di trigliceridi inferiore del 35% (p = 0.003) e un rischio ridotto del 53% (p=0.04) di malattia coronarica rispetto ai controlli ha indotto la comunità scientifica a sviluppare terapie mirate; attualmente, diversi oligonucleotidi antisenso che vanno a silenziare APOC3 o ANGPTL3 e un anticorpo monoclonale che inibisce selettivamente ANGPTL3 sono in fase di sperimentazione.
Battagliese: Quindi, Professore, è il momento di cambiare il paradigma terapeutico delle dislipidemie?
Borghi: Crediamo fortemente che la sempre più fine comprensione dei meccanismi fisiopatologici alla base delle dislipidemie tramite le novità ottenute mediante la genotipizzazione del DNA permetterà, a breve, di selezionare il farmaco o le combinazioni di farmaci di partenza ottimali per ogni categoria di pazienti, in modo da ridurre l’esposizione cumulativa e di bypassare l’attuale approccio “step-up” che non considera la vastissima variabilità individuale presente nei soggetti dislipidemici.
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