Impiego dei betabloccanti nel post infarto: sono davvero necessari?
di Filippo Brandimarte
16 Marzo 2021

L’utilizzo del betabloccante nel post infarto è una pratica clinica consolidata. Si basa sull’effetto protettivo dimostrato in studi clinici randomizzati datati e pertanto condotti prima dello straordinario sviluppo e diffusione delle tecniche di rivascolarizzazione percutanea e prima dell’implementazione sistematica delle statine e delle moderne terapie antiaggreganti. (1) Le linee guida statunitensi raccomandano un trattamento con betabloccanti in questo setting per circa 3 anni, mentre quelle europee concordano sul loro inizio dopo l’evento ischemico ma rimandano al giudizio clinico sulla durata del trattamento nel tempo. (2-6)

Al fine di chiarire il ruolo di questa classe farmacologica nel medio lungo termine è stato recentemente pubblicato sull’European Heart Journal lo studio danese condotto su oltre 30.000 pazienti tra 30 e 85 anni, arruolati tra il 2003 e il 2018, con prima diagnosi di infarto miocardico trattato con rivascolarizzazione percutanea o solo esame coronarografico (58% angioplastica primaria, 26% angioplastica sub acuta, 16% solo angiografia) e che non assumevano betabloccanti da almeno 1 anno prima del ricovero. (7)

A 90 giorni (periodo quarantena) dall’evento acuto sono stati inclusi solo i pazienti in vita a cui era stata prescritta terapia con statine ed aspirina con follow-up a 3 anni. Sono stati esclusi i pazienti con controindicazioni o con altre indicazioni alla terapia con beta bloccanti (scompenso cardiaco, asma, broncopneumopatia cronica ostruttiva, fibrillazione o flutter atriale), i pazienti che hanno avuto rivascolarizzazioni ulteriori e impianto di defibrillatori nel periodo di quarantena. Infine sono stati inclusi solo i pazienti cui la prescrizione dei batabloccanti veniva effettuata entro i primi 30 giorni dall’ infarto. L’endpoint primario è stato morte cardiovascolare, infarto ricorrente ed un endpoint composito di morte cardiovascolare, infarto ricorrente, scompenso cardiaco, ictus cerebri, angina stabile, rivascolarizzazioni percutanee o chirurgiche.

L’82% dei pazienti è risultato essere in trattamento con beta bloccanti mentre il restante 18% non lo era. Il dato più importante dello studio è che i pazienti in trattamento con beta bloccante avevano lo stesso rischio di sviluppare l’endpoint primario rispetto ai pazienti non in trattamento con questa classe di farmaci. Al contrario, invece, il trattamento con statine ha avuto un effetto protettivo nei confronti dell’endpoint primario, come era peraltro prevedibile.

 

  • Perché i betabloccanti non migliorano gli end point clinici?

I betabloccanti, inibendo il legame delle catecolamine con i recettori β1 e β2 presenti nel tessuto specifico di conduzione e nel muscolo cardiaco provocano una riduzione della frequenza cardiaca e della velocità di conduzione che nel medio-lungo termine impediscono il rimodellamento ventricolare riducendo il consumo miocardico di ossigeno, proteggendo da aritmie temibili particolarmente nei primi 3 mesi dalla riperfusione ed infine riducendo gli episodi anginosi. Tuttavia la rivascolarizzazione precoce, divenuta sempre più frequente e diffusa, ha dimostrato di essere egualmente un forte inibitore dell’attività simpatica di fatto mimando l’azione dei beta bloccanti.

Una metanalisi abbastanza recente sembrerebbe confermare i risultati dello studio danese (8) sebbene non siano state studiate differenze in termini di trattamento farmacologico e le differenze tra le varie procedure percutanee, rendendo difficile estrapolare l’impatto dei beta bloccanti sugli outcome.

 

  • Esistono evidenze opposte?

Al contrario, uno studio di Neumann et al. su circa 74.000 pazienti ha dimostrato che la sospensione dei betabloccanti dopo 1 anno dall’evento infartuale è associato ad un aumento del rischio di mortalità per tutte le cause e infarti ricorrenti. (9) Occorre notare però che lo studio aveva incluso pazienti con asma e broncopneumopatia cronica ostruttiva e che escludendo tale categoria di pazienti l’associazione non era più presente. Il trattamento con betabloccanti è infatti relativamente controindicato nei pazienti con asma e nei pazienti con broncopneumopatia l’utilizzo di tali farmaci è comunque ridotto nonostante gli effetti benefici dimostrati anche in questo setting, introducendo, di fatto, un significativo fattore confondente.

Anche un recente studio koreano ha dimostrato come continuare il trattamento con beta bloccanti oltre 1 anno post infarto sia associato ad un ridotto tasso di morte per tutte le cause. (10) In questo studio però erano presenti significative differenze tra la coorte che non assumeva beta bloccanti e quella che li assumeva, infatti nel primo gruppo solo il 69%, il 70% e d il 51% erano rispettivamente in trattamento con aspirina, statine e clopidogrel contrariamente al secondo gruppo in cui tali farmaci venivano assunti rispettivamente nel 95%, 95% e 69% di fatto rendendo difficile studiare il reale effetto dei betabloccanti sugli eventi.

 

  • Tiriamo le somme

Dovendo necessariamente tirare le somme dalle evidenze scientifiche sino ad oggi disponibili, sembra quindi ragionevole iniziare il trattamento con beta bloccanti nel periodo post infartuale più vulnerabile ovvero i primi 3 mesi in tutti i pazienti con la possibilità eventualmente di estendere tale periodo probabilmente ad 1 anno e riservare un trattamento nel lungo periodo solo ai pazienti con disfunzione ventricolare residua ovvero laddove è presente scompenso cardiaco, condizione in cui il beta blocco deve essere un caposaldo del trattamento. Questi dati quindi potrebbero, se confermati da ulteriori studi, far cambiare la pratica clinica e tale possibilità si “intravede” già nelle più recenti linee guida Europee che di fatto lasciano significativi margini di discrezionalità al medico curante sulla durata del trattamento.

 

 

Bibliografia

 

  1. Beta blocker Heart Attack Study Group. The beta-blocker heart attack trial. JAMA J Am Med Assoc 1981;246:2073–2074.
  2. Amsterdam EA, Wenger NK, Brindis RG, Casey DE, Ganiats TG, Holmes DR, Jaffe AS, Jneid H, Kelly RF, Kontos MC, Levine GN, Liebson PR, Mukherjee D, Peterson ED, Sabatine MS, Smalling RW, Zieman SJ. 2014 AHA/ACC guideline for the management of patients with non-ST-elevation acute coronary syndromes: a report of the American College of Cardiology/American Heart Association Task Force on Practice Guidelines. J Am Coll Cardiol 2014;64:e139–e228.
  3. Antman EM, Anbe DT, Armstrong PW, Bates ER, Green LA, Hand M, Hochman JS, Krumholz HM, Kushner FG, Lamas GA, Mullany CJ, Ornato JP, Pearle DL, Sloan MA, Smith SC, Antman EM, Smith SC, Alpert JS, Anderson JL, Faxon DP, Fuster V, Gibbons RJ, Gregoratos G, Halperin JL, Hiratzka LF, Hunt SA, Jacobs AK, Ornato JP. ACC/AHA Guidelines for the management of patients with ST elevation myocardial infarction—executive summary. J Am Coll Cardiol 2004;44:671–719.
  4. Ibanez B, James S, Agewall S, Antunes MJ, Bucciarelli-Ducci C, Bueno H, Caforio ALP, Crea F, Goudevenos JA, Halvorsen S, Hindricks G, Kastrati A, Lenzen MJ, Prescott E, Roffi M, Valgimigli M, Varenhorst C, Vranckx P, Widimsk_y P; ESC Scientific Document Group. 2017 ESC Guidelines for the management of acute myocardial infarction in patients presenting with ST-segment elevation. Eur Heart J 2018;39:119–177.
  5. Roffi M, Patrono C, Collet JP, Mueller C, Valgimigli M, Andreotti F, Bax JJ, Borger MA, Brotons C, Chew DP, Gencer B, Hasenfuss G, Kjeldsen K, Lancellotti P, Landmesser U, Mehilli J, Mukherjee D, Storey RF, Windecker S, Baumgartner H, Gaemperli O, Achenbach S, Agewall S, Badimon L, Baigent C, Bueno H, Bugiardini R, Carerj S, Casselman F, Cuisset T, Erol C¸, Fitzsimons D, Halle M, Hamm C, Hildick-Smith D, Huber K, Iliodromitis E, James S, Lewis BS, Lip GYH, Piepoli MF, Richter D, Rosemann T, Sechtem U, Steg PG, Vrints C, Zamorano JL. 2015 ESC Guidelines for the management of acute coronary syndromes in patients presenting without persistent ST-segment elevation: task force for the management of acute coronary syndromes in patients presenting without persistent ST segment elevation. Eur Heart J 2016;37:267–315.
  6. Knuuti J, Wijns W, Saraste A, Capodanno D, Barbato E, Funck-Brentano C, Prescott E, Storey RF, Deaton C, Cuisset T, Agewall S, Dickstein K, Edvardsen T, Escaned J, Gersh BJ, Svitil P, Gilard M, Hasdai D, Hatala R, Mahfoud F, Masip J, Muneretto C, Valgimigli M, Achenbach S, Bax JJ; ESC Scientific Document Group. 2019 ESC Guidelines for the diagnosis and management of chronic coronary syndromes. Eur Heart J 2020;41:407–477.
  7. Holt A, Blanche P, Zareini B, Rajan D, El-Sheikh M, Schjerning AM, Schou M, Torp-Pedersen C, MCGettigan P, Gislason GH, Lamberts M. Effect of long-term beta-blocker treatment following myocardial infarction among stable, optimally treated patients without heart failure in the reperfusion era: a Danish, nastionwide cohort study. Eur Heart J 2021;42:907-914.
  8. Bangalore S, Makani H, Radford M, Thakur K, Toklu B, Katz SD, Dinicolantonio JJ, Devereaux PJ, Alexander KP, Wetterslev J, Messerli FH. Clinical outcomes with b-blockers for myocardial infarction: a meta-analysis of randomized trials. Am J Med 2014;127:939–953.
  9. Neumann A, Maura G, Weill A, Alla F, Danchin N. Clinical events after discon- tinuation of b-blockers in patients without heart failure optimally treated after acute myocardial infarction. Circ Cardiovasc Qual Outcomes 2018;11:e004356.
  10. Kim J, Kang D, Park H, Kang M, Park TK, Lee JM, Yang JH, Song YB, Choi J-H, Choi S-H, Gwon H-C, Guallar E, Cho J, Hahn J-Y. Long-term b-blocker therapy and clinical outcomes after acute myocardial infarction in patients without heart failure: nationwide cohort study. Eur Heart J 2020;41:3521–3529.