Il nuovo dell’anticoagulazione: gli inibitori del fattore XI
di Alessandro Battagliese intervista Raffaele De Caterina
17 Marzo 2023

Battagliese: Gentile Professore crede che ci sia bisogno di nuovi farmaci anticoagulanti?

De Caterina: Gli anticoagulanti orali diretti (direct oral anticoagulants, DOAC) rappresentano ad oggi gli anticoagulanti di più largo impiego nel mondo occidentale. La farmacocinetica prevedibile, la semplicità d’impiego e l’ampia finestra terapeutica, nonché il favorevole profilo complessivo di efficacia e sicurezza ne rappresentano senza dubbio i più importanti vantaggi. Sia nella prevenzione dell’ictus in soggetti con fibrillazione atriale (FA) che nella prevenzione e trattamento del tromboembolismo venoso (TEV) i DOAC hanno dimostrato un’efficacia almeno pari all’eparina e agli antagonisti della vitamina K (AVK), con una minor incidenza di emorragie intracraniche e mortalità. Inoltre una bassa dose di rivaroxaban associata a terapia antipiastrinica ha dimostrato di ridurre l’incidenza di eventi avversi cardiovascolari maggiori e la mortalità in pazienti con recente sindrome coronarica acuta, malattia coronarica stabile e arteriopatia periferica. Ci sono tuttavia alcune categorie di pazienti nei quali i DOAC hanno fallito nel dimostrare un favorevole profilo di efficacia/sicurezza, sono controindicati. o non sono stati adeguatamente testati. In primis, nei portatori di protesi valvolari meccaniche o in soggetti affetti da sindrome da anticorpi antifosfolipidi i DOAC si sono dimostrati inferiori per efficacia agli AVK. Nei pazienti con funzione epatica compromessa, insufficienza renale severa o velocità di filtrazione glomerulare molto elevata e nei soggetti con pesi corporei estremi i DOAC non sono stati adeguatamente testati. Questo è anche avvenuto nei pazienti in cui il sangue è esposto a superfici artificiali, quali assistenze meccaniche al circolo o membrane di ossigenazione extracorporea: in questi casi i dati sull’utilizzo dei DOAC rispetto agli AVK sono carenti. Inoltre ancor oggi nei pazienti ad elevato rischio emorragico la decisione di iniziare o proseguire un trattamento anticoagulante rimane per lo più discrezionale, sulla base di una valutazione individuale tra rischio trombotico ed emorragico. Nello specifico, nei pazienti in dialisi o affetti da cancro il rapporto rischio-beneficio degli anticoagulanti orali in genere è ancora dibattuto. Inoltre i DOAC aumentano il rischio di sanguinamenti gastrointestinali rispetto agli AVK. Pertanto in tali contesti una strategia anticoagulante più sicura potrebbe rappresentare una nuova importante opzione di trattamento 1.

Battagliese: Quindi è possibile ipotizzare nuovi trattamenti anticoagulanti nello stesso tempo efficaci e sicuri?

De Caterina: le moderne teorie della coagulazione ipotizzano che sia possibile distinguere almeno in parte il meccanismo della trombosi patologica da quello dell’emostasi fisiologica 2. Gli anticoagulanti orali attualmente disponibili interferiscono tutti con i fattori X/Xa e II/IIa, che appartengono alla via comune della coagulazione e che risultano pertanto essenziali anche nei processi di emostasi fisiologica 3. Le conoscenze derivate da alcuni disordini genetici e in numerosi modelli sperimentali animali hanno ridestato l’interesse nei confronti della fase di contatto della via intrinseca della coagulazione, evidenziandone un ruolo sostanziale più nei processi di trombosi patologica che in quelli di emostasi fisiologica. L’ipotesi di sviluppare anticoagulanti con un miglior profilo di sicurezza che possibilmente raggiungano il Sacro Graal della prevenzione della trombosi dissociandola dall’emostasi fisiologica deriva sicuramente dalla conoscenza di alcuni disordini genetici. In particolare, nei soggetti affetti da deficit congenito del fattore XI (FXI), noto anche come emofilia C o malattia di Rosenthal, si osserva una riduzione dei livelli e dell’attività del FXI della coagulazione. Tali pazienti presentano un minor rischio di eventi trombotici, seppur con minima tendenza al sanguinamento 4. L’emofilia C è trasmessa con ereditarietà autosomica recessiva incompleta, interessando in egual misura maschi e femmine. La prevalenza del deficit di fattore XI in forma omozigote è di un caso ogni milione di persone, sebbene una frequenza più alta sia stata riportata nella popolazione ebraica, raggiungendo nella forma parziale l’8-9% tra gli Ebrei Ashkenazy 5. I sintomi emorragici sono qui di modesta entità e raramente spontanei. I sanguinamenti appaiono essenzialmente solo a seguito di eventi traumatici, estrazioni dentarie, interventi chirurgici o nel post-partum. Le donne possono presentare menorragia. A fronte di questa minima tendenza al sanguinamento i test della coagulazione sono marcatamente alterati. Il deficit di FXI prolunga infatti il tempo di tromboplastina parziale attivato (aPTT), che monitora la via intrinseca della coagulazione, senza alterare il tempo di protrombina (PT), misura invece della via estrinseca 1. Tale modesta tendenza al sanguinamento suggerisce che il FXI svolga, nei processi di emostasi, un ruolo per lo più secondario e di minor rilievo. Contrariamente a ciò, molte evidenze hanno mostrato come l’attivazione del FXI sia cruciale nei fenomeni aterotrombotici 6. Inoltre i soggetti con elevati livelli di FXI hanno un rischio di trombosi venosa profonda (TVP) di 2.2 volte più alto rispetto a soggetti con livelli normali 7.

Anche studi condotti su modelli sperimentali animali supportano il ruolo preponderante del FXI nei fenomeni trombotici, con minima influenza sul processo emostatico. Nello specifico, modelli murini carenti di FXI mostrano normale sanguinamento dopo amputazione della coda, con minor tendenza alla formazione di trombo nelle sedi di danno artero-venoso 8. Similmente, in questi modelli sperimentali l’impiego di anticorpi diretti contro il FXI riduce l’incidenza di trombosi 9. In modelli sperimentali nel babbuino il trattamento con anticorpi monoclonali anti-FXI riduce la deposizione di piastrine e fibrina nella sede di innesti vascolari senza alterare il tempo di sanguinamento, mentre l’impiego di anticorpi diretti contro il fattore XII (FXII) risulta meno efficace in tal senso 8.

Battagliese: Quindi emostasi e trombosi sono strettamente correlati?

De Caterina: Considerare emostasi e trombosi processi totalmente dipendenti dalle stesse reazioni enzimatiche è un’approssimazione semplicistica. Diverse evidenze infatti confermano ad oggi l’ipotesi che l’emostasi sia prevalentemente dipendente dalla via estrinseca della coagulazione, mentre la via intrinseca risulta maggiormente coinvolta nella crescita patologica del trombo.

Battagliese: Quindi se esiste questa stretta interconnessione tra la via intrinseca ed estrinseca, basterebbe bloccare la via giusta per ottenere l’anticoagulante ideale in grado di prevenire la trombosi e non aumentare il rischio di sanguinamento?

De Caterina: I ricercatori si sono concentrati sull’inibizione della via intrinseca, e il FXI è apparso essere il più promettente bersaglio candidato. Il FXII (o il FXII attivato, FXIIa), anch’esso appartenente alla via intrinseca della coagulazione, si è dimostrato invece meno importante; diversi studi epidemiologici hanno infatti fallito nel dimostrare un’associazione tra i livelli di FXII e rischio di TEV, ictus ischemico o infarto miocardico 10.

Battagliese: Professore potrebbe chiarire meglio questo concetto?

De Caterina: L’emostasi è la risposta fisiologica al danno di una parete vasale; è principalmente un processo extra-vascolare, ed è innescato dall’esposizione ad alte concentrazioni di fattore tessutale (FT) presente nell’avventizia dei vasi sanguigni, il che avviene dopo lesione della parete del vaso. Le alte concentrazioni di FT legano il FVII convertendolo in FVII attivato (FVIIa), e il complesso FVIIa:FT converte il FX in FXa che è responsabile di un’iniziale, limitata produzione di trombina dalla protrombina. Quest’iniziale produzione di trombina porta alla formazione di fibrina, e questa, assieme al FXa, agisce con un feedback positivo nell’attivare cofattori chiave quali il FV e il FVIII. La limitata quota di trombina generata precocemente porta alla formazione di un coagulo instabile. In aggiunta all’attivazione di FX, il complesso FVIIa:FT converte il FIX in FIXa. Il FIXa che ha il FVIIIa come cofattore, mantiene la produzione di trombina attraverso un’attivazione sostenuta del FX, con formazione di un coagulo stabile 2. L’importanza di questa via nell’emostasi è dimostrata dai sanguinamenti gravi secondari ai deficit ereditari di FVIII e del FIX, noti rispettivamente come emofilia A e B 11. Tuttavia la capacità del complesso FVII:FT di favorire la crescita del trombo all’interno del lume del vaso può essere limitata dall’espansione stessa del trombo oltre la sede del danno vascolare, e cioè di esposizione di FT 2.

Il sistema da contatto, all’inizio della via intrinseca della coagulazione per molti anni è stato scarsamente considerato poiché gli attivatori fisiologici di tale via non erano ben noti, e il deficit congenito dei suoi fattori quali il FXII, il chininogeno ad alto peso molecolare (high molecular weight kininogen, HMWK) e la precallicreina (PK) non era associati a fenomeni emorragici. Inoltre il deficit congenito di FXI era responsabile, come sopra menzionato, di una solo minima diatesi emorragica. Pertanto l’attivazione del sistema da contatto era vista per lo più come un fenomeno di scarsa importanza in vivo e che si realizzava in vitro dopo contatto con superfici cariche negativamente. Tuttavia studi condotti negli ultimi 15 anni hanno identificato diversi potenziali attivatori fisiologici, con evidenze sempre maggiori a conferma di un suo ruolo preponderante nei fenomeni di espansione e stabilizzazione del trombo. Tra gli attivatori, si annoverano diversi poli-anioni, quali acidi nucleici liberati da cellule attivate, filamenti di materiale nucleare espulso da neutrofili attivati (neutrophil extracellular traps, NET), nonché polifosfati liberati da piastrine attivate e da microrganismi. Tali attivatori si osservano pertanto prevalentemente nei siti di infiammazione e di infezione in seguito a fenomeni di attivazione cellulare e apoptosi. In presenza di poli-anioni, ad esempio, il FXII si auto-attiva, e converte il FXI in FXIa. Questo a sua volta attiva il FIX. Il FIXa è responsabile dell’attivazione del FX, convergendo così nella via comune della coagulazione con produzione di trombina e fibrina 10.

Battagliese: Perché gli inibitori del FXI avrebbero la potenzialità di ridurre la trombosi “patologica” con nulla o minima interferenza sulla fase emostatica?

De Caterina: La trombosi è innescata da basse concentrazioni di FT esposte nei siti di rottura di placche aterosclerotiche così come su endotelio attivato che lega monociti attivati e microvescicole. Tale processo trombotico, oltre che da poli-anioni fisiologici, può essere innescato dal contatto con le superfici artificiali di dispositivi medici che legano il FXII e ne promuovono l’auto-attivazione. In questo caso l’attivazione del FXI porta alla produzione di trombina, che a sua volta, attraverso un meccanismo di feedback positivo, retroattiva il FXI amplificando così la formazione di trombina e di fibrina e portando all’espansione del trombo. Pertanto è il feedback positivo tra FXIa e la trombina il principale responsabile della trombosi patologica. La via estrinseca, con l’attivazione del FXII e il feedback positivo tra FXI e trombina non sono invece strettamente necessari alla formazione del tappo emostatico. Infatti questo si realizza anche in presenza di livelli molto bassi di FXI, anche ridotto al 10-20%. Da qui il razionale di inibire il FXI per bloccare la trombosi “patologica” con nulla o minima interferenza sulla fase emostatica. Avere come bersaglio la fase da contatto inoltre appare ragionevole nei casi in cui la trombosi è secondaria al contatto del sangue con le superfici artificiali dei dispositivi medici, come circuiti di emodialisi, cateteri e valvole cardiache meccaniche 1, 2

Battagliese: Quali sono gli inibitori del FXI in via di sviluppo?

De Caterina: partendo da queste premesse fisiopatologiche sono stati sviluppati farmaci che sono in grado di inibire il FXI o il FXIa 12. Questi possono essere classificati in tre principali categorie sulla base della loro struttura chimica e cioè:

  1. Oligonucleotidi antisenso (anti-sense oligonucleotides, ASOs): riducono la sintesi epatica di FXI (IONIS-FXIrx e fesomersen).
  2. Anticorpi monoclonali (monoclonal antibodies, mAbs): si legano al FXI o FXIa bloccandone l’attivazione o l’attività (osocimab, abelacimab, xisomab 3G3 e MK-2060)
  3. Piccole molecole: legano reversibilmente il FXIa bloccandone l’attività (milvexian , asundexian ed EP-7041)

Inibitori naturali e aptameri contro il FXI sono ancora in fase di sviluppo preclinico e non ancora testati sull’uomo.

Differenti proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche caratterizzano le classi sopramenzionate e ciò comporta vantaggi e svantaggi propri di ciascuna categoria. Gli ASOs agiscono riducendo la sintesi e pertanto i livelli di FXI, a differenza delle altre categorie farmacologiche che si legano inibendo la proteina bersaglio (FXI o FXIa). Solo le piccole molecole possono essere somministrate oralmente, hanno un rapido inizio d’azione ma anche una breve emivita, per cui la somministrazione è di una o due volte al giorno. Gli ASOs impiegano dalle 3 alle 4 settimane per ridurre i livelli di FXI, mentre gli anticorpi monoclonali hanno un rapido inizio di azione, soprattutto se somministrati endovena piuttosto che sottocute. Gli ASOs e gli anticorpi monoclonali hanno inoltre una lunga emivita che consente la somministrazione mensile. A differenza delle piccole molecole, gli ASOs e gli anticorpi monoclonali non sono escreti per via renale, e le loro interazioni farmacologiche sono improbabili poiché non sono metabolizzati dal citocromo P450 e non sono substrato della glicoproteina P. I mAbs possono essere immunogeni e possono indurre nel sito di iniezione una reazione autoimmune. Gli ASOs possono esercitare effetti pro-infiammatori e indurre nefrotossicità, epatotossicità e trombocitopenia. Tutto ciò può riflettersi su potenziali diverse indicazioni terapeutiche, così come in un differente profilo di sicurezza 1.

Battagliese: Quali sono le potenziali indicazioni cliniche?

De Caterina: Vari inibitori del FXI hanno ad oggi completato con successo gli studi clinici di fase 2 condotti in pazienti sottoposti a chirurgia ortopedica maggiore, in soggetti affetti da FA, e nei pazienti con malattia renale terminale. Nel complesso, i quattro inibitori valutati nella prevenzione e trattamento del TEV secondario a chirurgia ortopedica maggiore hanno dimostrato almeno la non inferiorità rispetto alle eparine a basso peso molecolare, evidenziando tuttavia un miglior profilo di sicurezza 3. Gli studi che hanno valutato l’inibizione del FXI nella prevenzione degli eventi tromboembolici in soggetti affetti da FA e in quelli con malattia renale terminale o in emodialisi hanno mostrato risultati rassicuranti di sicurezza, farmacodinamica e farmacocinetica, pur non fornendo sufficienti dati di efficacia, e ponendo tuttavia basi solide per far progredire la ricerca con studi clinici di fase 3. Studi clinici di fase 2 sono in corso per valutare l’efficacia e la sicurezza di inibitori del FXI per la prevenzione del TEV in pazienti affetti da cancro, pazienti caratterizzati notoriamente da un elevato rischio emorragico. In tale contesto clinico, infatti, i DOAC, seppur efficaci, hanno evidenziato un non trascurabile rischio di sanguinamento. Dati preclinici supportano inoltre il concetto che la riduzione di FXIIa o di FXIa si associno a minor rischio di trombosi da catetere. A tal proposito uno studio clinico di fase 2 sta valutando la prevenzione della trombosi da cateteri venosi centrali (CVC) in pazienti oncologici sottoposti a chemioterapia. Un’ulteriore via di ricerca è la prevenzione cardiovascolare secondaria nel post-infarto e la trombo-profilassi in pazienti affetti da COVID-19 1.

Battagliese: In conclusione, Professore, cosa dobbiamo aspettarci dagli inibitori del FXI?

De Caterina: Questi farmaci dovranno affrontare una dura battaglia in cui l’obiettivo principale sarà quello di soddisfare le esigenze ancora disattese dalla terapia con DOAC e ritagliarsi una nicchia all’interno dell’ampio ventaglio delle possibili indicazioni terapeutiche dell’anticoagulazione. Ciò significa che l’obiettivo almeno iniziale non sarà di sostituire i DOAC attuali, ma di essere impiegati in quei contesti clinici in cui i DOAC sono controindicati o in cui la loro utilità non è stata completamente stabilita. A tal proposito le più importanti indicazioni potrebbero essere la prevenzione degli eventi avversi cardiovascolari maggiori in soggetti affetti da malattia renale terminale o in emodialisi, e la prevenzione della trombosi da dispositivi medici quali CVC, protesi valvolari meccaniche e assistenze ventricolari. Infine una strategia di trattamento parimenti efficace, ma con miglior profilo di sicurezza risulterà di particolare utilità nei contesti clinici a più alto rischio emorragico quali ad esempio i pazienti oncologici o quelli con FA candidati a doppia o tripla terapia, così come nella prevenzione secondaria dei pazienti con pregresso infarto del miocardio 13. Obiettivo più ambizioso è quello di sostituire i DOAC per almeno uguale efficacia e migliore sicurezza nella FA. Altre indicazioni potrebbero essere le sindromi coronariche acute e l’ictus ischemico, in cui non c’è ancora, al momento attuale, consenso sull’uso degli anticoagulanti orali. Studi clinici di fase 3 in corso o pianificati dovranno fornire tutte le evidenze necessarie in merito al profilo di efficacia e sicurezza di questa nuova strategia terapeutica e il suo potenziale utilizzo nei diversi contesti clinici ipotizzati.  

Grazie Professor De Caterina.