IL CUORE ALTROVE
di Ivan Battista
12 Agosto 2018

È tempo di vacanze e molti di noi si preparano per affrontare un viaggio, breve o lungo che sia.

Secondo un antico adagio è più importante porre il cuore nel cammino piuttosto che nella meta. Non si può non essere d’accordo con tale affermazione. Però, io sostengo che anche stabilire la meta del viaggio può essere importante e può dire molto di noi. Ma prima di specificare cosa la meta del viaggio possa lasciar intendere di noi, vorrei fare una distinzione tra viaggio e spostamento.

Il viaggio prevede sempre un ritorno, altrimenti non potremmo definirlo tale. Il viaggio può essere compiuto per piacere o per impegno lavorativo e assume il suo senso più profondo nel momento in cui, ritornati, ci accingiamo a “narrare” ciò che abbiamo constatato e sostenuto.

Uno dei viaggi più antichi di cui abbiamo testimonianza scritta è quello dell’eroe sumero Gilgamesh che parte alla ricerca dell’erba che dona l’eterna giovinezza e che torna, ovviamente, senza essere riuscito nell’impresa. Anche Ulisse affronta un viaggio lunghissimo che comprende un ritorno estremamente drammatico: il re greco è costretto a spargere nuovo sangue, compiendo la strage dei principi Proci per riaffermare i suoi diritti regali.

Lo spostamento, invece, è un tragitto e non prevede un ritorno, almeno nel breve termine. Questo è più la caratteristica del migrante che deve lasciare la terra natia, per ragioni belliche, di persecuzione politica o per motivi più prosaicamente economici, nel tentativo di trovare la fortuna altrove.

Lo stato d’animo del viaggio è l’eccitazione della scoperta o l’attenzione dell’osservazione. Lo scopo è di arricchirsi psicologicamente riportando, per quanto possibile, ciò che si è vissuto nell’impegno del tour al proprio ritorno.

Lo stato d’animo dello spostamento, al contrario, tipico dell’emigrante, è la malinconia dovuta alla perdita di ciò che lo ha generato (la “madre patria”), dei suoi riferimenti affettivi più profondi e identitari, ferita inenarrabile e mai completamente guaribile.

Anche chi ha problemi cardiaci, purché non siano estremamente gravi, può viaggiare portando il suo “cuore” altrove. C’è chi sta facendo una cura con farmaci “intelligenti” e mirati, purtroppo sovente cardiotossici, per sconfiggere un tumore, chi ha avuto uno o più bypass cardiaci e che ha recuperato più o meno bene la sua salute. In ogni caso, sempre sotto stretto controllo medico, possiamo affermare che anche un cardiopatico, ripeto col dovuto controllo e le dovute attenzioni, può e deve avere la possibilità di portare il suo “cuore altrove”: oserei dire che ciò può fare parte integrante della cura.
Portare il cuore altrove può avere ragioni differenti e strettamente personali. Tali ragioni possono aiutarci a capire la personalità e/o il periodo che il viaggiatore sta passando. C’è chi lo porta perché ha bisogno di scoprire più di se stesso e allora, di frequente, si muove da solo. Chi, contrariamente, soffre di solitudine e ha bisogno di condividere l’esperienza spostandosi in compagnia. Chi cerca un’esperienza più animata ed eccitante per sfuggire alla noia di una vita troppo scontata e allora sceglie mete caotiche e stimolanti. Chi già svolge una vita frenetica e vorticosa e cerca la quiete e la calma di un resort, di una spa o di un agriturismo.

Molti letterati e uomini di cultura sono stai grandi viaggiatori. Mi vengono in mente i nomi di Marco Polo col suo “Il milione”, di Johann Wolfgang Goethe, con “Viaggio in Italia”, di Bruce Chatwin con “In Patagonia” , di Ryszard Kapuscinski con “Ebano”, di Tiziano Terzani con “Un indovino mi disse”, di Jon Krakauer con “Nelle terre estreme” e infine, ma ce ne sarebbero molti altri ancora, di Jack Kerouac con “Sulla strada”. E ancora, i poeti romantici britannici Byron, Shelley e Keats, giovin signori impegnati nel loro viaggio di formazione quasi dovuto ai figli delle classi abbienti nordeuropee.

Sarebbe opportuno che ognuno riuscisse a cimentarsi col viaggio, perché facilitatore dello sviluppo più completo della nostra personalità. Vedere e sperimentare il mondo di persona favorisce lo sviluppo dell’Io adulto. Gli pscionevrotici, come ci confermano gli studi di Sigmund Freud, sono quelle personalità rimaste fissate agli stadi d’investimento libidico infantili, anche se si presentano con caratteristiche, per lo più esteriori, del tutto adulte. Il vero significato del porre il “cuore” altrove va ricercato nella voglia d’allontanamento che conduce distanti dalla routine alla ricerca del contatto col nuovo. La civiltà nasce sulla capacità dell’essere umano di avviare e mantenere contatti con diverse realtà culturali. Gli Usa nascono e si costituiscono a seguito di tanti cuori spostati “altrove”. Nel 1620 la nave Mayflower, dopo un lungo viaggio per mare, sbarca i Pilgrim Fathers (sorta di coloni puritani Inglesi) sulle coste a est del continente nordamericano, precisamente a Plymouth, Massachusetts.

L’avventura che il viaggio del cuore porta con sé è dovuta al fatto che chi decide di muoversi accetta comunque il rischio di porsi maggiormente di fronte all’imprevedibile e al “perturbante”. Non è contestabile che la strada da percorrere abbia la valenza di un cammino iniziatico, non necessariamente fideistico, che vede al suo fianco, a puntello dell’esperienza sconosciuta che si andrà ad esperire, la voglia di crescita e di cambiamento. Il recupero dello stato di salute ha molto a che fare con la crescita e il cambiamento. Per guarire, spesso si deve crescere e il recupero del benessere è legato a doppio filo col cambiamento: si lascia lo stato di malattia per riguadagnare quello di buona salute. Il nuovo, però, e soprattutto l’emergere della propria interiorità, a volte sconcerta. La straordinaria forza trasformativa che il viaggio porta insita in sé fa paura. Quando giungiamo alle soglie di una partenza per mete sconosciute, capita anche che ci sentiamo preda di una sottile tristezza perché lasciare i luoghi che si amano, pur nella consapevolezza della volontà di tornare, è uno sforzo psichico notevole. Mi riecheggiano in mente le parole del Manzoni: “Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente (…)”.

Mettere il cuore altrove, con le inevitabili stimolazioni e situazioni nuove, apre alla possibilità del cambiamento, della modificazione psicologica e spirituale, in alcuni casi anche fisica. Una cosa è certa, quando si parte, sia che si torni o no, non si rimane mai come si era prima. In fondo, siamo tutti viaggiatori con un biglietto unico e centinaia di illusioni, sogni, aspirazioni che, spesso, solo perché troviamo la forza di muoverci, si realizzano. Concludendo, sarà il viaggio, l’atto “coraggioso” di portare il nostro cuore in un altro luogo, a prendersi cura di noi e non il contrario.

Ivan Battista
Psicologo, psicoterapeuta, docente presso la Scuola Medica Ospedaliera,
Ospedale Santo Spirito, Roma