Ai tempi che Berta filava e gli anziani spesso si sfilavano da questo mondo con l’ictus non c’erano purtroppo rimedi né per prevenirlo né per curarlo. Aveva una qualche efficacia il salasso, ma non conoscendo bene il suo meccanismo d’azione poteva capitare lo si facesse a sproposito, come accadde a George Washington, che, colpito da un banale raffreddamento, fu così trattato fino a privarlo ogni resistenza e causarne il decesso. Allora inoltre succedeva più spesso che il cosiddetto coccolone fosse provocato da pressioni troppo elevate che provocavano la rottura di un vaso cerebrale, cui conseguiva un’inondazione di sangue dall’esito quasi sempre infausto. Così successe a Joseph Stalin e anche ad Enrico Berlinguer, senza riferimenti all’impegno politico, si capisce.
Fortunatamente il miglior controllo della pressione da cinquant’anni a questa parte ha ridotto di molto la malignità dell’ictus, soprattutto perché la sua causa è sempre più dovuta a trombosi o ad embolia, ossia ad un coagulo dentro le arterie dell’encefalo come nell’infarto del cuore. Peraltro favorito anche dalla maggiore sopravvivenza e dal poterlo meglio prevedere e curare con i molti mezzi a disposizione.
La fibrillazione atriale, ad esempio, la tipica aritmia degli anziani, la più minacciosa di tromboembolie, è ora sotto controllo con gli anticoagulanti e gli antiaritmici; mentre le embolie paradosse alla Cassano, dovute a un pertugio persistente dalla nascita, sono correggibili con un “bottone” introdotto nell’atrio destro senza chirurgia. E gli stessi esiti in paralisi più o meno debilitanti hanno potuto beneficiare della moderna fisioterapia.
Quindi il medico oggi ha molte più armi per curare l’ipertensione e le aritmie, e anche il paziente nel collaborarvi; nonostante l’ignoranza di quest’ultimo, dovuta alle deficienze scolastiche, faccia sembrare ancora verosimile la storiella di quel paralizzato a sinistra, che udita la sentenza del medico sulla sua inabilità permanente, spostò a destra l’organo che i milanesi indicano con un volatile e i napoletani con un pesce.
Oramai tutti hanno preso coscienza che l’ictus cerebrale dovuto a trombosi o a embolia (raramente a emorragia) è l’equivalente dell’infarto cardiaco, la necrosi di un pezzetto di miocardio, con la differenza che le cellule nervose tollerano molto meno la sospensione dell’ossigeno provocata da quel tappo in una loro arteria, rispetto a quelle muscolari del cuore dipendenti dalle coronarie. Tuttavia i grandi risultati ottenuti dai cardiologi nel disostruire questi vasi durante la minaccia di infarto (stent, bypass e altro) hanno stimolato anche i neurologi a fare altrettanto e, dopo un periodo di meditazione necessario a superare le difficoltà tecniche e la “intoccabilità” del cervello, anche loro vi hanno posto mano. Dapprima con la trombolisi, un farmaco che scioglie il trombo, la quale però non ha dato gli stessi benefici ottenuti nell’infarto cardiaco quasi 40 anni fa. Recentemente stanno attuando anche loro l’azione diretta sul coagulo mediante catetere, con una procedura analoga a quella usata in emodinamica dai cardiologi per i loro pazienti a rischio di infarto. Siamo ancora agli inizi, ma quelle strutture neurologiche di pronto intervento hanno già un loro nome, Stroke Unit, unità di terapia intensiva per l’ictus.
Data la minore resistenza alla ”asfissia” del cervello, come s’è detto, i neurologi interventisti hanno posto inizialmente limiti di tempo molto stretti fra la comparsa del disturbo e l’intervento sul trombo (entro 6 ore). Ma visti i buoni risultati, peraltro non così eclatanti come quelli sul cuore, i medici del Medical Center Stroke Institute dell’Università di Pittsburgh hanno esteso nel 2017 la procedura anche a coloro che arrivavano in ospedale tra le 6 e le 24 ore dalla comparsa del coccolone, con vantaggi clinici meno buoni, ma ancora auspicabili. La spiegazione di tali miglioramenti ad intervento tardivo, apparentemente in contrasto con la resistenza di quelle cellule cui basta una breve caduta di pressione per farci svenire, è la stessa che ha convinto il cardiologo ad aumentare il suo “door to balloon”, il tempo tra l’angina e la coronarografia. In altre parole, molte di quelle cellule inattive per l’anossia spesso non lo sono irreversibilmente, ma sono solo addormentate, ibernate come negli animali in letargo o, come le definiscono quegli specialisti americani, “penumbral tissue”. Un tessuto cerebrale in attesa del risveglio, che però è tanto più fattibile quanto prima evitiamo che quel sonno diventi eterno.
Risultati meravigliosi della medicina, come si vede, e che lo diventeranno di più con i progressi tecnologici, impegnati da un lato nel definire meglio mediante la risonanza magnetica e altri superesami le zone del cervello addormentate e dall’altro le migliori sonde e perizie nell’aggredire il coagulo.
Un orizzonte quindi che, a misura si allarga, sempre più fa aumentare anche le nostre conoscenze e l’impegno della sanità. In un divenire che non sarà facile da contemperare con i problemi di una vita più lunga, di nuove strutture ospedaliere, del sostegno all’invalidità e, come sostengono i “trumpisti”, della maggiore spesa.
La “canoscenza” però, da quando ce la trasmise Dante, è per noi l’obbiettivo non derogabile in scienza e anche in medicina, che è la sua branca oltretutto artistica, come sottolineava il grande clinico William Osler.
Eligio Piccolo
Cardiologo