GRASSI SATURI E CARDIOPATIA ISCHEMICA. UNA FACCENDA COMPLICATA.
di Antonella Labellarte
19 Giugno 2015

Fin dagli anni ’60 le linee guida per la prevenzione della cardiopatia ischemica hanno sottolineato l’importanza di ridurre nella dieta il consumo di acidi grassi saturi. I grassi saturi infatti aumentano i livelli di colesterolo LDL nel sangue e quindi il rischio di aterosclerosi delle arterie coronarie. O almeno questo suggeriva la conoscenza.
In verità vi sono sì studi che evidenziano tale associazione, ma ve ne sono altri, incluse alcune meta analisi, che non confermano tale legame. Nel frattempo le linee guida del 2013 dell’American College of Cardiology (ACC) e dell’American Heart Association (AHA) sullo stile di vita da condurre nella prevenzione della cardiopatia ischemica, suggeriscono che il 5-6% delle calorie presenti nella dieta debbano provenire da acidi grassi saturi.

Non vi è una risposta semplice per una questione così complessa. Non si possono liquidare i grassi saturi come buoni o cattivi. Gli acidi grassi saturi non possono essere infatti considerati un’entità singola: meriti o demeriti possono infatti dipendere dal tipo di dieta in cui sono inclusi, dai cibi da cui provengono e dallo stesso individuo che li assume.
La genetica e lo stile di vita possono infatti modificare l’influenza della dieta sulla salute.

Acidi grassi saturi (SFAs)


Non possiedono doppi legami nella catena di atomi di carbonio e sono in prevalenza di origine animale. In realtà hanno un’attività biologica complicata. Se è vero che aumentano i livelli di colesterolo LDL, essi modificano anche le dimensioni delle particelle, agiscono su colesterolo HDL e trigliceridi. In una metanalisi di più di 60 studi un’elevata assunzione di acidi grassi saturi ha determinato un aumento di LDL-C e HDL-C e una diminuzione dei trigliceridi, con un effetto neutro sul rapporto LDL/HDL.

Acidi grassi polinsaturi (PUFAs)


Hanno due o più doppi legami e sono classificati come omega-6 o omega-3 in relazione alla posizione del primo doppio legame. Ne fanno parte gli omega-6 di origine vegetale (ad es. l’acido linoleico) e gli omega-3 che provengono dall’olio di pesce, l’acido docosaesaenoico (DHA) e l’acido eicosapentaenoico (EPA).

Acidi grassi monoinsaturi (MUFAs)


Hanno un solo doppio legame, includono l’olio di oliva, di girasole, sono presenti nei semi di sesamo o nell’avocado, per citarne alcuni.

Ma ha importanza la fonte degli acidi grassi saturi?
La domanda non è peregrina poiché vi sono sempre maggiori evidenze che i grassi saturi presenti nei derivati del latte non aumentano il rischio cardiovascolare e anzi possono addirittura promuovere un profilo metabolico più favorevole. Sono questi i risultati del MESA study condotto su più di 5000 adulti seguiti per 10 anni nelle loro abitudini alimentari. Un introito elevato di acidi grassi saturi presenti nella carne è risultato associato ad un incremento del rischio cardiovascolare mentre al contrario questa associazione non è stata documentata per i grassi presenti nei prodotti caseari. Inoltre è stata rilevata un’associazione tra introito di questi ultimi e riduzione del rischio di diabete mellito di II tipo.

La riduzione dell’introito di grassi con la dieta implica la sostituzione con altri macronutrienti. Nella storia dei trial di intervento condotti con modificazione della dieta vi sono numerosi fallimenti. Per citarne uno quello del Women’s Health Initiative (WHI) Dietary Modification Trial in cui non vi è stata riduzione di cardiopatia ischemica o stroke in 20.000 donne in periodo postmenopausale che hanno assunto una dieta povera di grassi. Dall’analisi di trials controllati è stimato che per ogni 1% di energia proveniente da acidi grassi saturi sostituita da 1% di energia proveniente da carboidrati, grassi monoinsaturi o polinsaturi i livelli di colesterolo LDL sono progressivamente scesi di 1.2, 1.3 e 1.8 mg/dL rispettivamente. Presi questi dati complessivamente il decano della Friedman School of Nutrition Science and Policy di Boston, Dr Mozaffarian dice che “..i grassi polinsaturi hanno un effetto benefico, i monoinsaturi hanno un effetto favorevole sul profilo lipidico ma non è chiaro se si traduca in una riduzione della cardiopatia ischemica. Se si paragonano i grassi saturi ai carboidrati, l’effetto sui lipidi è praticamente neutrale.”

Fonti:
Cheng M, Hu Z, Lu X et al. Caffeine intake and atrial fibrillation incidence: Dose response meta analysis of prospective cohort studies. Canadian J. Cardiol 2014 Apr; 30(4):448-54

Antonella Labellarte
Cardiologa
Ospedale S. Eugenio, Roma