Gli steps della terapia dello scompenso cardiaco: quando tocca alle glifozine?
di Alessandro Battagliese
22 Marzo 2021

Grossi trial clinici hanno dimostrato l’efficacia di sacubitril/valsartan, dei beta bloccanti (BB), degli antagonisti recettoriali dei mineralcorticoidi (MRA) e dei farmaci inibitori del cotrasportatore sodio/glucosio (SGLT2i) nel modificare prognosi e mortalità nello scompenso cardiaco (SC) e frazione di eiezione ventricolare sinistra (FEVS) ridotta.

L’attuale approccio terapeutico per la cura dello SC nel paziente “naive” con FEVS ridotta consiste nell’ introduzione iniziale in terapia di un ACE-inibitore o di un Sartano, seguita dal BB. Come terzo step e dopo titolazione della precedente terapia, in pazienti ancora sintomatici è prevista l’aggiunta di un MRA, quindi il sacubitril-valsartan ed infine un SGLT2i sempre in presenza di una persistente classe funzionale NYHA avanzata.

Tuttavia il presupposto su cui si basa questo paradigma terapeutico presenta molteplici limitazioni: prima tra tutte il concetto che ogni singolo farmaco debba essere necessariamente titolato al dosaggio massimo per essere efficace. Si presume, inoltre, che i trattamenti più efficaci e ben tollerati siano necessariamente quelli sviluppati per primi e che l’efficacia e la sicurezza di ciascuna classe di farmaci siano state testate in studi clinici in cui tutti i pazienti ricevessero tutta la terapia alle dosi target.

Tuttavia, basse dosi di farmaci per lo SC a FEVS ridotta producono importanti benefici nel ridurre la morbilità e la mortalità e le dosi target sono spesso solo modestamente più efficaci delle basse dosi iniziali nel ridurre il rischio di morte cardiovascolare.

Inoltre negli studi clinici, la maggior parte dei pazienti riceve dosi subottimali dei trattamenti raccomandati e anche negli studi completati più di recente una percentuale significativa non è stata trattata con un MRA o con sacubitril/valsartan a qualsiasi dose.

Con l’attuale algoritmo di cura, che predilige la titolazione a dose target di ogni singolo farmaco prima di introdurre il successivo, occorrono , in condizioni ideali di assistenza, almeno sei mesi per poter introdurre tutte e 4 le classi di farmaci raccomandate e anche in condizioni ideali,  sei mesi sono un tempo inaccettabile considerando sia i tassi elevati di morte ed ospedalizzazione per scompenso a 30 gg dall’evento indice e sia il beneficio precoce  soprattutto in termini di ospedalizzazione, di alcune classi farmacologiche, tra cui gli SGLT2i.

Relativamente alla terapia con SGLT2i, recentemente sono state pubblicate su JACC due sottoanalisi molto interessanti dello studio EMPEROR-reduced che ha dimostrato l’efficacia di un SGLT2i (empagliflozin) in termini di riduzione di mortalità cardiovascolare e ospedalizzazione per scompenso in pazienti anche non diabetici con scompenso cardiaco cronico e frazione di eiezione severamente ridotta.

Nella prima sottoanalisi, Milton Packer e coll, ipotizzando una correlazione tra efficacia di empagliflozin (nello SC) e effetto diuretico, confrontano due popolazioni ambulatoriali (con SC e FEVS ridotta) sulla base delle condizioni di carico emodinamico: una più stabile, che necessita di dosaggio più bassi di diuretico e che non ha avuto negli ultimi 12 mesi necessità di incremento della terapia diuretica  o di un ciclo endovenoso della stessa (rappresentata dal 60% circa dei pazienti del Trial originale) e un restante 40% di pazienti più instabili, con classe funzionale NYHA più avanzata, peptidi natriuretici mediamente più elevati, che avevano avuto almeno una ospedalizzazione per scompenso o erano stati sottoposti a cicli ambulatoriali di terapia diuretica endovena.

Agli investigatori è stato chiesto di valutare lo stato clinico dei partecipanti arruolati nelle ultime 4 settimane in termini di sovraccarico idrico, euvolemia o ipovolemia.

Obiettivo primario dello studio era un composito di morte cardiovascolare e ospedalizzazione per scompenso cardiaco. Obiettivo secondario erano le ospedalizzazioni per scompenso cardiaco e gli eventi renali avversi in termini di deterioramento del filtrato glomerulare, ricorso a dialisi e/o trapianto renale e riduzione sostenuta del filtrato glomerulare superiore o uguale al 40% rispetto al basale.

Cosa non sorprendente, I pazienti con sovraccarico di volume avevano una prognosi peggiore e maggiori probabilità di andare incontro a morte cardiovascolare o ospedalizzazione per scompenso cardiaco.

Empagliflozin ha ridotto il rischio di morte cardiovascolare o ospedalizzazione per SC (rispettivamente 29 vs 19% di riduzione del rischi; gruppo A HR: 0.81; 95% CI: 0.66 to 0.99 e gruppo B HR: 0.71; 95% CI: 0.58 to 0,86 con p di interazione =0,34) e le ospedalizzazioni per scompenso cardiaco (rispettivamente 16% vs. 40% di riduzione del rischio; gruppo A HR: 0.84; 95% CI: 0.63 to 1.12; gruppo B HR: 0.60; 95% CI: 0.47 to 0.78 con una p di interazione =0,09)  in misura simile nei pazienti con (gruppo A) e senza (gruppo B) sovraccarico di volume al basale, senza evidenza di eterogeneità nel beneficio del trattamento.

Da notare come il beneficio di empagliflozin è stato molto precoce con un’ immediata divergenza delle curve nella popolazione senza sovraccarico di volume al basale e cioè nella popolazione con uno SC meno avanzato; questo potrebbe giustificare l’impiego di questa classe di farmaci più precocemente nella storia naturale della malattia ed offrire un vantaggio più pronunciato in una popolazione di pazienti con SC apparentemente stabile.

Rispetto a placebo, I livelli di NT-pro-BNP sono diminuiti solo in minima parte dopo 4 settimane mentre la riduzione è stata maggiore dopo 52 settimane e a prescindere dalla presenza o assenza di sovraccarico di volume. Anche in termini di riduzione di peso corporeo e di incremento dell’ematocrito non sono state osservate differenze a seconda della presenza o meno di sovraccarico di volume.

I risultati di questa sottoanalisi fanno ipotizzare che il meccanismo principale con cui gli SGLT2i agiscono vada ben oltre il semplice effetto diuretico che invece appare molto modesto, basti pensare che nella maggior parte dei casi non sia stata necessaria una riduzione della terapia diuretica nella popolazione trattata e non si siano verificati casi di ipovolemia.

Il beneficio tardivo sui peptidi natriuretici farebbe ipotizzare un effetto diretto degli SGLT2i sul rimodellamento ventricolare probabilmente attraverso recettori miocardici. Anche l’incremento dei valori di ematocrito sembrerebbe essere secondario ad uno stimolo diretto sull’ eritropoiesi più che alla concentrazione ematica. Il calo ponderale, infine, sembrerebbe secondario maggiormente al deficit calorico secondario alla glicosuria più che alla deplezione idrica.

Nella seconda sottoanalisi dello studio EMPEROR-reduced Pedro Ferreira e coll. hanno studiato l’interazione MRA/empagliflozin e nello specifico quanto l’utilizzo concomitante di un MRA influenzasse l’efficacia di empagliflozin nei pazienti con SC e FEVS ridotta.

I pazienti sono stati randomizzati a placebo e empagliflozin a prescindere dagli altri farmaci assunti per lo SC tra cui MRA che potevano essere aggiunti o sospesi o modificati nel corso dello studio a giudizio degli investigatori.

Obiettivo primario dello studio era un composito di morte cardiovascolare e ospedalizzazione per scompenso cardiaco. Obiettivo secondario erano le ospedalizzazioni per scompenso cardiaco e gli eventi renali avversi in termini di deterioramento del filtrato glomerulare, ricorso a dialisi e/o trapianto renale e riduzione sostenuta del filtrato glomerulare superiore o uguale al 40% rispetto al basale.

Obiettivi di sicurezza prespecificati erano gli eventi avversi e la comparsa di iperpotassiemia.

Il 71% di pazienti dello studio EMPEROR reduced assumevano un MRA (spironolattone ed eplerenone); questi erano mediamente più giovani, con funzione renale migliore e frazione di eiezione più bassa.

Rispetto al placebo, l’efficacia di empagliflozin sugli outcome primario e secondari era simile indipendentemente dall’ uso di un MRA al basale con una riduzione rispettivamente del 25 e 24% dell’end-point composito primario di morte cardiovascolare o ospedalizzazione per insufficienza cardiaca in coloro che assumevano (MRA +) e non assumevano (MRA-) un inibitore del recettore mineralcorticoide (p di interazione = 0,93). Anche la riduzione delle ospedalizzazioni per scompenso cardiaco, di circa il 30% nella popolazione trattata con empagliflozin,  era indipendente dall’assunzione o meno di MRA.

Tuttavia da questa sottoanalisi sono emersi due dati molto interessanti. 1) L’andamento della mortalità cardiovascolare e per tutte le cause.

Nel trial principale empagliflozin non ha determinato una riduzione significativa di questi outcome.

Nella sottoanalisi di Ferreira si è osservata una riduzione della mortalità totale e cardiovascolare, anche se ai limiti della significatività statica, solo nei pazienti che assumevano empagliflozin e MRA rispetto a placebo (HR rispettivamente di 0,84 e 0,82) con una tendenza all’aumento delle stesse in coloro che non assumevano MRA.

2) il rischio di iperpotassiemia e deterioramento della funzione renale era significativamente più basso nei pazienti randomizzati a empagliflozin rispetto a placebo. Questo ha determinato un minor tasso di sospensione della terapia con MRA in questo gruppo di pazienti.

L’attuale studio quindi se da un lato dimostra che l’uso di MRA alla randomizzazione non ha influenzato i benefici di empagliflozin sugli outcome primari e secondari, dall’altro fornisce informazioni molto importanti di sicurezza, efficacia e sostenibilità di un trattamento sinergico tra SGLT2 e MRA anche se saranno necessari più dati per valutare se l’uso di spironolattone o eplerenone possa influenzare gli effetti degli inibitori SGLT2 su altri outcome di efficacia e sicurezza.

Un’ipotesi di nuovo algoritmo

Se consideriamo i dati della recente letteratura e quelli emersi dalle numerose sottoanalisi dei trial sugli SGLT2i nello scompenso cardiaco, l’attuale algoritmo terapeutico dello SC a  frazione di eiezione appare  anacronistico e non più sostenibile.

Qualsiasi nuovo algoritmo di trattamento dovrebbe basarsi su diversi principi. In primo luogo, l’entità del beneficio del trattamento di ciascuna classe di farmaci è indipendente da quello prodotto da altri agenti. In particolare, l’uso di MRA non modifica l’efficacia di un inibitore della neprilisina del recettore dell’angiotensina e l’uso di sacubitril / valsartan non influenza l’efficacia di un SGLT2i.

In secondo luogo, basse dosi iniziali di farmaci di base sono efficaci nel ridurre la morbilità e la mortalità. Basse dosi di enalapril, carvedilolo ed eplerenone esercitano effetti significativi sul rischio di morte o ospedalizzazione per insufficienza cardiaca, come evidenziato dai benefici osservati in studi su larga scala prima degli aumenti di dose prescritti dal protocollo. Da notare che per i SGLT2i, la dose iniziale è identica alla dose target. In terzo luogo, l’aggiunta di una nuova classe di farmaci produce vantaggi di entità maggiore rispetto all’aumento della titolazione delle classi di farmaci esistenti. Infatti, incrementi da 3 a 7 volte della dose di un inibitore dell’enzima di conversione dell’angiotensina o di un bloccante del recettore dell’angiotensina non produce alcuna riduzione della mortalità osservata con l’aggiunta di un βbloccante, inibitore della neprilisina o SGLT2i. In quarto luogo, un più corretto sequenziamento delle classi di farmaci può migliorarne la sicurezza e la tollerabilità. In particolare, l’inibizione della neprilisina o l’utilizzo precoce di un SGLT2i può ridurre il rischio di insufficienza renale prodotta da un inibitore dell’enzima di conversione dell’angiotensina o da un sartano, e possono ridurre al minimo il rischio di iperkaliemia con l’uso di MRA. Infine, in considerazione dell’elevata vulnerabilità del paziente con scompenso cardiaco nel breve periodo post dimissione e del precoce beneficio di alcune classi di farmaci tra cui gli SGLT2i e il sacubitril-valsartan, l’algoritmo dovrebbe prevedere il raggiungimento della terapia ottimale con tutte e 4 le principali classi di farmaci entro 4 settimane.

In considerazione dell’effetto dei beta bloccanti sulla morte cardiaca improvvisa e del precoce beneficio sulle ospedalizzazioni per scompenso cardiaco degli SGLT2i il primo step potrebbe prevedere l’impiego immediato di queste due classi di farmaci anche in considerazione del fatto che non è necessaria titolazione degli SGLT2i per ottenerne il massimo beneficio.

Entro massimo due settimane nei pazienti con pressione arteriosa superiore a 100 mmHg si potrebbe prendere in considerazione l’aggiunta di sacubitril/valsartan. Nei pazienti con pressione inferiore potrebbe essere più prudente introdurre basse dosi di un inibitore del recettore dell’angiotensina e contestualmente ottimizzare la terapia diuretica. Ultimo step, a distanza di altre 1/2 settimane, potrebbe essere  rappresentato dall’introduzione dei MRA se non sussistono controindicazioni. Infatti la concomitante terapia con sacubitril/valsartan e SGLT2i in virtù degli effetti positivi sulla funzione renale e sull’omeostasi del potassio potrebbe facilitare la sostenibilità della terapia con MRA.

Tutto questo a prescindere dalla classe funzionale del paziente e del fatto che il paziente sia sintomatico o no perché è ormai ampiamente dimostrato come il beneficio maggiorne della terapia si ottenga proprio nel periodo di apparente stabilità dello SC.

Sebbene questa sia solo una ipotesi di trattamento, ha tuttavia un razionale scientifico supportato dalle evidenze. In particolare l’utilizzo precoce ed immediato degli SGLT2i già in dimissione, anche alla luce dei numerosi dati di letteratura appare sempre meno una chimera.  

Si spera che a breve le nuove linee guida sul trattamento dello scompenso cardiaco aggiornino

l’attuale paradigma terapeutico.

 

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