GLI “SPREAD” DELL’ASPIRINA
di Eligio Piccolo
11 Dicembre 2018

Seguendo le alterne vicende dell’Aspirina nei 150 anni successivi alla sua sintesi sembra quasi di assistere all’alternanza delle aspettative e delle delusioni del nostro spread  economico. Il tanto attuale spread, come si sa, si basa sul confronto tra i buoni del tesoro italiani poco solidi e quelli tedeschi assai sicuri.
I risultati dell’impiego dell’aspirina, farmaco tedesco appunto, via via sono stati valutati negli studi  condotti sui pazienti del resto del mondo, specie quello anglosassone, e hanno parimenti presentato  grandi “oscillazioni” e conferito al farmaco alterna fortuna.

L’inizio della storia risale alla seconda metà dell’ottocento e  fu fortunoso perché uno dei ricercatori della Bayer, nel tentativo di ottenere per il padre sofferente di reumatismi una sostanza più efficace e con minori  effetti secondari dei salicilati, aggiungendo a questi un acetile, riuscì a ottenere l’acido acetilsalicilico, ossia l’aspirina. Essa risultò effettivamente più efficace dei sali estratti dal salice piangente, e fece la fortuna dell’industria, oltre a ridurre anche i lamenti del genitore.

Dopo alcuni anni però, un po’ l’inconveniente occorso al figlio dello Zar Nicola II, affetto da emofilia, al quale il farmaco (proposto dalla madre tedesca) aggravò le sofferenze, mentre le pozioni del mago Rasputin le migliorò, e un po’ la segnalazione del francese Pallette e di altri ematologi, secondo i quali l’aspirina favoriva le emorragie, provocarono un lungo periodo di ripensamenti durante il quale l’aspirina fu meno importante della cibalgina. Si arrivò così al 1972 quando lo statunitense Lee Wood segnalò che l’acido acetilsalicilico, proprio per le sue proprietà di contrastare l’aggregazione delle piastrine e di sfavorire la coagulazione, se utilizzato a piccole dosi (dosaggio che poi sarà indicato come aspirinetta o cardioaspirina), preveniva l’infarto e altri guai causati delle trombosi. Le conferme successive hanno determinato un tale rimbalzo di vendita che alcuni anni fa nei soli Stati Uniti essa fu calcolata in sedicimila tonnellate di compresse in un anno. L’ondata di entusiasmo fu tale che circa 10 anni fa qualcuno segnalò addirittura che se la pastiglia veniva assunta la sera anziché il mattino, si otteneva pure un migliore controllo della pressione arteriosa.

Nel frattempo si fecero avanti anche gli ipercritici, cui pareva troppo semplicistico, se non impossibile, che un farmaco derivato da una pianta millenaria e per di più a costi proletari, potesse avere ragione di una malattia, l’arteriosclerosi, dove i fattori favorenti, le implicazioni genetiche e gli studi metabolici facevano perdere la testa a tanti scienziati e clinici. Alcuni di questi, sulla base di nuove sperimentazioni su migliaia di pazienti, cominciarono a precisare che l’aspirina fa sicuramente bene in chi è stato già toccato da un infarto  o da un ictus, ma non preveniva affatto queste malattie in coloro che speravano di scongiurarle. Non so se questa malinconica precisazione ne abbia ridotto il consumo, non credo, perché quando una terapia è ben tollerata e costa poco si continua a sperare che un qualche beneficio lo dia, come dicono gli spagnoli “si por las moscas”.

A rincarare il dubbio dei contestatori si aggiunse nel 2013 un certo Liew dell’Università di Sydney, il quale osservò che l’uso prolungato di aspirina raddoppiava il rischio di sviluppare una maculopatia retinica senile, fino anche alla cecità.
Ma lo “spread”, questa volta massiccio, un’ offensiva che pare lo sbarco degli Alleati in Normandia, è arrivato ultimamente (2018) da vari gruppi e su diversi fronti: dal ridimensionamento di un vero beneficio cardiovascolare al rischio di altre malattie, dalla mortalità in generale ai sanguinamenti. E come tutte le rivalutazioni che si rispettano si accompagnano ad acronimi quasi allusivi: ASCEND, ARRIVE e ASPREE, con migliaia di pazienti seguiti per diversi anni. Il primo comprende oltre 15 mila soggetti apparentemente non cardiopatici, ma con diabete, nei quali il gruppo curato con aspirina, rispetto al placebo, ebbe meno eventi vascolari, ma di poca entità, un vantaggio quasi neutralizzato dall’aumento di emorragie; ARRIVE, eseguito su oltre 12 mila pazienti con rischio cardiovascolare e senza diabete, riferiva la stessa mortalità in chi assumeva aspirina o placebo, ma la prima dava il doppio di emorragie; ASPREE, che comprese quasi 20 mila pazienti australiani e statunitensi, di età non inferiore ai 70 anni, non rivelò alcun beneficio, e addirittura un aumento dei tumori negli australiani.

In conclusione, rivedendo i pro e i contro dei circa 15 studi eseguiti fino ad ora, nei quali i vantaggi apportati dall’aspirina non erano così eclatanti come quelli delle elezioni bulgare, e tenuto presente che molto di quanto registriamo oggi dipende dalla sempre migliore assistenza sanitaria che corregge i nostri errori, certamente una maggiore attenzione a questi renderebbe forse inutile l’aspirina nella prevenzione.

Eligio Piccolo
Cardiologo