Genetica, Fibrosi e Prognosi nella Cardiomiopatia Dilatativa: può la Risonanza Magnetica Cardiaca aiutare a scoprire il mistero?
di Rosa Maria Manfredi
23 Gennaio 2024

Introduzione: La Cardiomiopatia dilatativa (DCM) è spesso una malattia diagnosticata in giovane età la quale, al di là del rischio di sviluppare episodi di scompenso cardiaco, sia acuto che terminale (ESHF), presenta un rischio aritmico non trascurabile e la definizione della percentuale tale di rischio è spesso una sfida. Molti lavori sono stati effettuati negli anni per sciogliere questo dilemma, alcuni dei quali hanno sfruttato la capacità della risonanza magnetica cardiaca (CMR) di visualizzare la fibrosi (mediante l’acquisizione, tardivamente dopo somministrazione di gadolinio, di immagini dimostranti la eventuale presenza di aumentato segnale del miocardico: late enhancement – LGE). Con tale arricchimento di informazioni si è visto che il rischio aritmico nella DCM non sempre è legato alla frazione di eiezione del ventricolo sinistro (LVEF), essendo la presenza di fibrosi (F) predisponente di per sé, allo sviluppo di aritmie ventricolari maligne (MVA) e di morte improvvisa (SCD) [1]. Anche l’essere portatori di alcune varianti genetiche, rispetto ad altre, comporta un rischio aggiuntivo sia aritmico che di deterioramento della LVEF. Mirelis et al [2] hanno associato la CMR e lo studio genetico, riscontrando che l’LGE positivo era associato sia a MVA che ad ESHF (entrambi, p < 0,001), mentre il genotipo + si mostrava più frequente nell’ESHF (p = 0,034) ma non nel MVA (p = 0,102), riclassificando come più alti il rischio per MVA ed ESHF nei pazienti con L+ o G+ rispetto a quelli con L-/G.

Scopo dello Studio: [3]: è stato valutare, nella DCM, la eventuale presenza, estensione e localizzazione della F, valutata alla CMR, correlandola con dati anatomofunzionali, genetici e clinici, in particolare del rischio aritmico.

Materiali e Metodi: Lo Studio [3] è una sottoanalisi di un registro multicentrico di 600 pazienti (pz) con DCM non ischemico effettuato in Spagna tra il 2015 e il 2021 [2]. Sono stati arruolati di 577 pz di età ≥ 15 anni con DCM, su cui sono stati effettuati test genetici: 516 (89,4%) probandi e 61 (10,6%) familiari con genetica+. Lo studio genico era risultato positivo per varianti patogene correlate alla DCM in 219 pz (38%), mentre 358 pz (62,0%) erano genotipicamente negativi. La DCM è stata definita come la presenza di frazione di eiezione ventricolare sinistra (LVEF) < 50% sull’ecocardiogramma, non correlata alla malattia coronarica né ad altre patologie. Tutti i pz sono stati sottoposti a imaging CMR 1,5 T per la valutazione della LVEF e della F miocardica. Le immagini cine e LGE di tutti i centri sono state valutate a livello centrale in un laboratorio principale in cieco rispetto a genotipi e risultati.

I pz sono stati classificati, rispetto all’LGE, in 8 categorie: assenza, pattern lineare intramiocardico, pattern intramiocardico a chiazze (“patchy”), subepicardico, subendocardico, nei punti di inserzione del ventricolo destro (RV), transmurale e pattern combinato. Tali pattern sono stati quindi semplificati in quattro gruppi principali (assenza, intramiocardico, subepicardica e altri. E’ stata quindi valutata l’associazione tra LGE e ciascun gene, tra LGE e LVEF (LVEF ≤ 35% vs. >35%) e volumi ventricolari; infine, è stato analizzato il risultato dei test genetici secondo i modelli LGE dei probandi. Le varianti genetiche sono state classificate come: patogene (P), probabilmente patogene (LP), di significato sconosciuto (VUS) o probabilmente benigne/benigne (LB/B). Sei pz sono stati esclusi dall’analisi perché avevano ≥2 varianti patogenetiche, inoltre, sono stati esclusi 17 pazienti con varianti che causano DCM, non ben rappresentate nella coorte (8 era considerato il numero minimo di pz richiesto per trarre conclusioni sul pattern LGE associato a un determinato gene). Come gruppo di controllo sono stati raggruppati i pz che presentavano varianti VUS e LB/B. L’obiettivo primario dello Studio è stato valutare la presenza di MVA e di SCD; sono state, inoltre, considerate anche la mortalità cardiovascolare e la mortalità totale. Il follow-up medio è stato di 2,7 anni.

Risultati: La variante genetica maggiormente rappresentata nei pz arruolati nello Studio erano pz con delezioni del gene codificanti la Titina (TTN) (n = 81), mentre i restanti geni variavano tra gli 8 e i 22 pz. L’età media dei pz era di 53,5 ± 14,1 anni, con differenze significative tra i geni (P < 0,001). I pz con varianti del gene codificante la Troponina T2 cardiaca (TNNT2) (43,9 ± 17,4) e la Laminina (LMNA) (44,5 ± 11,9) erano più giovani di quelli con varianti del gene della proteina C legante la miosina (MYBPC3) (57,0 ± 11,5) e del gene della catena pesante della βmiosina (MYH7)  (56,4 ± 13,5).

Cardio RM: La LVEF media era 36,9 ± 13,5% senza valori significativi differenze tra i gruppi. Complessivamente, 147 pz (il 25,5%) avevano LGE alla CMR. Non sono state trovate differenze significative tra i gruppi nella percentuale di pz con LGE, sebbene alcuni gruppi genetici presentassero LGE nella maggioranza dei casi (Desmoplachina-DSP 64,7%/ Distrofina-DMD 62,5%).  Per contro l’LGE non era presente in nessun pz con varianti del gene codificante la Troponina T2(TNNT2 0%).  Allo stesso modo, l’estensione della F miocardica, ove presente, non presentava differenze significative tra i diversi geni.

Per quanto riguarda la distribuzione del modello LGE, il pattern lineare intramiocardico (n = 45 pz, 7,8%) era il pattern più frequente riscontrato, seguito da quello subepicardico (n = 38 pz, 6,6%) e nei punti di inserzione del RV  (n = 28 pz, 4,9%). Una combinazione di pattern è stata riscontrata in 11 pz (1,9%).

Sono state riscontrate, inoltre, differenze significative rispetto ai pattern di distribuzione dell’LGE tra i differenti gruppi genici (P <0,001). Pazienti con varianti in DMD, DSP e FLNC hanno mostrato una predominanza di LGE subepicardico (50, 41 e 18%, rispettivamente), mentre il pattern lineare intramiocardico era il modello più frequente nei pazienti con varianti nella LMNA (28,6%). D’altro canto, LGE era assente o presente in proporzione ridotta dei pazienti con varianti in TNNT2, RBM20 e MYH7 (0, 5 e 20%, rispettivamente).

Da ciò, per semplificare, si possono raggruppare i geni in tre categorie: subepicardico (Distrofina-DMD, Desmoplachina-DSP e Filamina C-FLNC), non specifico (Titina-TTN, BAG cochaperone 3-BAG3, Laminina-LMNA e proteina C legante la miosina-MYBPC3) e assenti/rari (Troponina T2 cardiaca-TNNT2, RNA binding motif protein 20-BM20 e catena pesante della βmiosina-MYH7).

Nessuna differenza statisticamente significativa in presenza di LGE sono stati osservati tra i pazienti con grave disfunzione sistolica ventricolare sinistra (LVEF ≤ 35%) e quelli con LVEF più elevata.

Inversamente, per quanto riguarda la probabilità di individuare il gene in base alla distribuzione dell’LGE nei probandi (n=516), l’associazione LGE/positività genetica era significativamente diversa secondo il modello LGE (P = 0,007): il pattern subepicardico (18/34, 52,9%) aveva una maggiore positività per geni P e LP, con riduzione della positività al 30,2% (16/53) e al 40,4% (21/52) in caso di pattern intramiocardico e di altri pattern, rispettivamente. La probabilità di riconoscimento di varianti genetiche patogene era solo del 27,3% (103/377) nei pazienti che non presentavano LGE.

Follow-up: Durante un follow-up 46 pz (8,0%) hanno presentato MVA. Hanno mostrato un aumento del rischio di MVA, rispetto ai pz senza LGE: pz con pattern LGE combinato [hazard ratio (HR) 18,2, intervallo di confidenza al 95% (CI) (5,1-64,4), P < 0,001], subepicardico [HR 5,7, IC al 95% (2,6-12,4), P < 0,001] , intramiocardico [HR 5,5, IC al 95% (2,4–12,2), P < 0,001], transmurale [HR 4,5, IC al 95% (1,1–19,5), P = 0,04] e nei punti di inserzione RV [HR 3,4, IC al 95% (1,1–10,0), P = 0,03]. I pz con pattern LGE intramiocardico, dei punti inserzione del RV e combinato avevano anche un rischio più elevato di mortalità cardiovascolare e complessiva; mentre pz con pattern subendocardico o patchy intramiocardico, non hanno mostrato MVA durante il follow-up. Tra i pz LGE negativi; 18 pz hanno presentato una MVA dei quali 7 pazienti (38,9%) erano geneticamente negativi, mentre 11 pazienti (61,1%) presentavano varianti genetiche patogene, la maggior parte associate a geni con maggiore suscettibilità alle aritmie ventricolari.

Discussione e Conclusioni: Questo studio [3] rappresenta la più grande coorte di pazienti con DCM fenotipizzati utilizzando test genetici e CMR, fornendo dati aggiuntivi a sostegno del fatto che il rischio di MVA varia in base ai modelli LGE, dimostrando un maggiore rischio aritmico nei pattern combinati e subepicardici, ma non trascurabile anche nei pz che presentavano LGE nei punti di inserzione del RV, confermano così il ruolo importante della CMR nei pz con DCM.

Considerazioni: Questo Studio [3], considerando solo i pazienti geneticamente positivi, ha il merito di concentrare l’attenzione sulla modifica anatomopatologica, in particolare sulla fibrosi, determinata dal gene stesso, escludendo fenotipi simili determinati da altre condizioni, come per esempio il post-miocardite. Seppur con i limiti del considerare come gruppo di controllo i geneticamente negativi (dei quali alcuni potrebbero diventare in futuro geneticamente + con l’aumentare delle nostre conoscenze), focalizza, a mio parere, due cose: 1) la presenza di LGE è un fattore di rischio aggiuntivo, 2) il rischio aritmico, anche nei pz con LGE -, è condizionato anche dalla variante genetica, dimostrando che geni associati a un alto rischio aritmico possono portare a morte improvvisa, pur in assenza di LGE.

Queste rilevazioni rendono più intricata la gestione dei pz con DCM, soprattutto in merito all’eventuale impianto di defibrillatore in prevenzione primaria, facendo così emergere il ruolo importante della genetica e della CMR nel follow-up della DCM. Ulteriori Studi similari saranno necessari in futuro per sciogliere questo dilemma.

Bibliografia:

  1. Di Marco A et al.: Improved risk stratification for ventricular arrhythmias and sudden death in patients with nonischemic dilated cardiomyopathy. J Am Coll Cardiol 2021;77:2890–905.
  2. Mirelis JG et  al: Combination of late gadolinium enhancement and genotype improves prediction of prognosis in non-ischaemic dilated cardiomyopathy. Eur J Heart Fail 2022;24:1183–96.
  3. Fernando de Frutos et al.: Late gadolinium enhancement distribution patterns in non-ischaemic dilated cardiomyopathy: genotype-phenotype correlation. Eur Heart J Cardiovasc Imaging. 2023 Dec 21;25(1):75-85.