FIBRILLANTI SI NASCE!
di Eligio Piccolo
09 Giugno 2019

Lo diceva perfino Totò, Principe De Curtis, riferito alla nobiltà, concludendo con il famoso “e io lo nacqui!”. Io pure potrei dirlo per la fibrillazione atriale, che da oltre 40 anni con alterne vicende mi accompagna. Ma, a differenza della nobiltà, fibrillanti si può soprattutto diventare, non dalla nascita bensì da anziani, facilitati da malattie di cuore, dalla pressione alta, dall’obesità e da molte altre cause che i cardiologi amano elencare ripetutamente. Oggi è di attualità la genetica, che cerca di capire se nel milione di pazienti con fibrillazione atriale viventi in Italia, cifra che secondo alcune proiezioni dovrebbe arrivare a cinque milioni nel 2050, giochi una certa ereditarietà, come d’altronde varie ricerche degli ultimi decenni sembrano documentare. Sono indagini per lo più circoscritte a singoli ambiti familiari o a particolari gruppi di pazienti, quindi non ancora statisticamente ben documentate.

Ben documentata invece appare con tutta evidenza l’indagine norvegese pubblicata nel 2012, che analizza quasi quattro milioni di persone nate dal 1950 in poi e seguite dal 1997 al 2008. Vi sono considerati separatamente i casi di età inferiore ai 60, ai 40 e ai 30 anni, con fibrillazione atriale “lone”, ossia non dovuta a cardiopatie evidenti, quella che noi, amanti dell’indefinibile, definiamo idiopatica o in cuore apparentemente sano. Tale tipo fu osservato dai norvegesi in 9.607 casi, vale a dire nel 64.7%, quasi i due terzi di tutte le fibrillazioni registrate nel loro accurato National Patient Register. La familiarità fu indagata nell’altrettanto accurato Registro Civile, dividendo i parenti in due gruppi: I° grado (genitori e fratelli) e II° grado (nonni, zii e nipoti). La fibrillazione atriale risultò tre volte e mezza più frequente nei casi che avevano riferito la comparsa di quell’aritmia nei parenti di I° grado rispetto a quelli senza quel disturbo in tutti i loro ascendenti e collaterali; e anche decisamente superiore rispetto a coloro nei quali la fibrillazione aveva colpito i parenti di II° grado. Il dato più interessante tuttavia è che quando la stessa analisi sulla fibrillazione atriale dei parenti venne fatta sui pazienti di età inferiore ai 40 e ai 30 anni, nei quali sono più rari i fattori facilitanti che sopraggiungono con l’età e in cui prevalgono invece quelli ereditari, il rischio di averla aumentava fino a sei e otto volte rispettivamente.

Insomma, la fibrillazione atriale “lone”, che come si è visto è la più frequente, si comporta allo stesso modo di altre aritmie genetiche autosomiche dominanti (scusate il politichese), nelle quali la capacità di manifestarsi è condizionata da vari fattori ereditari, che gli esperti vanno sempre meglio precisando. Finora sono stati individuati molti “loci” nei cromosomi di questi pazienti, ossia una specie di geni che predispongono alla malattia. Dobbiamo anche tener presente che in coloro che si portano dietro questa piccola tara familiare ci sono tre condizioni che ne favoriscono la penetranza, ossia la possibilità che l’aritmia accada: l’alcool (che si può sempre eliminare), la pressione alta (che è oggi dominabile in molti modi e con vari farmaci), l’attività sportiva troppo vigorosa (ugualmente regolabile), e il sesso maschile, purtroppo uno dei tanti svantaggi cardiologici rispetto a quello femminile, che  obbliga a una più accurata attenzione negli uomini.

Alla luce di questi risultati credo valga la pena di richiamare l’attenzione sul penultimo di quei fattori, l’attività fisica, e sugli atleti che più di altri la praticano poiché molti medici negli ultimi anni hanno messo in evidenza che alcuni atleti, quelli che praticano prevalentemente sport di resistenza (calcio, ciclismo, marcia, nuoto, tennis, ecc.), possono venire colpiti dalla fibrillazione atriale, che è quasi sempre ben tollerata e si risolve spesso da sola. Sono casi relativamente rari, possiamo dire, per i quali si è pensato allo sforzo come fattore che fa aumentare la pressione, all’iperattività vagale tipica di alcuni sportivi, ma purtroppo anche all’uso di droghe, il cosiddetto doping, che comprende oltre agli eccitanti anche gli anabolizzanti, le eritropoietine e l’ormone della crescita. Sono stati realizzati perfino studi di confronto negli animali, i quali hanno confermato la possibilità che lo sforzo fisico attraverso vari meccanismi facilita la fibrillazione nei loro cuori.

 

Naturalmente, visti i risultati dello studio norvegese, è presumibile che anche negli atleti, appartenenti con maggiore frequenza alla categoria dei più giovani, giochi in qualche misura l’ereditarietà, da valutare negli esami di controllo e di idoneità. E’ possibile infatti che la comparsa di certe aritmie durante le prove da sforzo o nelle registrazioni con l’Holter, nonché la documentazione di alcuni  segni ecocardiografici di un difficile adattamento del cuore allenato, siano una spia di una predisposizione genetica alla fibrillazione atriale.
Tutti hanno diritto a fare dello sport, ci mancherebbe, ma, parafrasando il solito De Coubertin, non tutti sono obbligati a vincere.

Eligio Piccolo
Cardiologo