Efficacia delle gliflozine nello scompenso cardiaco anche in assenza di diabete
di Alessandro Battagliese intervista C. Borghi
09 Ottobre 2021

I farmaci SGLT2 inibitori, comunemente definiti gliflozine, inizialmente sviluppati ad uso esclusivo nel paziente con diabete mellito tipo II, hanno dimostrato sin dai primi trial clinici solidi benefici sulla riduzione del rischio di morte per eventi cardiovascolari ed una riduzione del tasso di ospedalizzazioni per scompenso cardiaco3: questi promettenti risultati costituiscono la scintilla che ha innescato una serie di studi mirati a valutare l’efficacia delle gliflozine nei pazienti con insufficienza cardiaca anche in assenza di diabete.

A. Battagliese: Negli ultimi anni si è assistito ad un radicale cambiamento nella cura del diabete focalizzando l’attenzione maggiormente sulla sicurezza cardiovascolare che sul solo controllo glicemico e dell’emoglobina glicata. È d’accordo?

C. Borghi: Che la terapia del diabete mellito tipo II abbia subito un radicale mutamento negli ultimi 15 anni è ormai assodato: innumerevoli farmaci innovativi quali gli SGLT2I, in grado garantire un’ottimizzazione del compenso glicemico senza causare ipoglicemia, rappresentano ad oggi dei veri e propri capisaldi terapeutici; non solo per l’intrinseca capacità di queste molecole nel garantire un miglior controllo della glicemia, ma bensì per gli effetti che esercitano sull’apparato cardiovascolare. Diversi pioneristici trial clinici, EMPA-REG, CANVAS e DECLARE-TIMI-58, hanno dimostrato chiari benefici sulla riduzione del rischio cardiovascolare e delle complicanze macrovascolari con l’utilizzo rispettivamente di empagliflozin, canagliflozin e di dapagliflozin nel paziente diabetico. I promettenti risultati emersi da questi trial rappresentano la scintilla che ha innescato una serie di studi mirati a valutare l’efficacia delle gliflozine nei pazienti con insufficienza cardiaca anche in assenza di diabete, innescando quella che sarà, nei prossimi anni, una vera e propria rivoluzione terapeutica.

A. Battagliese: Quindi una classe di farmaci nati per la cura del diabete potrà rivoluzionare il trattamento dello scompenso cardiaco? In che modo?

C. Borghi: Lo scompenso cardiaco viene definito come una sindrome clinica determinata da un’insufficiente capacità del cuore di espellere una quantità di sangue necessaria a soddisfare le esigenze metaboliche tissutali dell’organismo o di farlo solo a costo di elevate pressioni di riempimento. In accordo con le ultime linee guida ESC possiamo suddividere i pazienti con scompenso cardiaco in tre gruppi in base alla frazione d’eiezione: HFrEF (insufficienza cardiaca a frazione d’eiezione ridotta) quando la FE ≤ 40%; HFpEF (insufficienza cardiaca a frazione d’eiezione preservata) quando la FE ≥ 50% ed HFmrEF quando la FE risulta compresa tra 41-49%1. Si stima che 26 milioni di persone al mondo siano affette da insufficienza cardiaca, con importanti ricadute socioeconomiche2. La prevalenza dell’insufficienza cardiaca nella popolazione adulta è pari al 2% e tale percentuale supera il 10% nei pazienti con età maggiore di 70 anni. La mortalità a 12 mesi risulta variabile dal 6.4% in caso di insufficienza cardiaca cronica fino ad arrivare al 23.6% in caso di insufficienza cardiaca acuta. 2 Ad eccezione di sacubitril-valsartan, negli ultimi decenni nessuna nuova molecola è diventata parte integrante dell’armamentario terapeutico a disposizione dei clinici nei pazienti con HFrEF in aggiunta alla terapia standard con inibitori del sistema RAAS e beta bloccanti; la situazione risulta ancor più drammatica nella categoria di pazienti a frazione d’eiezione preservata, in cui le terapie utilizzate nell’HFrEF, compreso sacubitril-valsartan (valutato nel PARAGON-HF trial), hanno fallito nel dimostrare un beneficio sull’ospedalizzazione e la mortalità. Risulta dunque essenziale individuare nuove strategie terapeutiche efficaci. I farmaci SGLT2 inibitori, inizialmente sviluppati ad uso esclusivo nel paziente con diabete mellito tipo II, hanno dimostrato sin dai primi trial clinici solidi benefici sulla riduzione del rischio di morte per eventi cardiovascolari ed una riduzione del tasso di ospedalizzazioni per scompenso cardiaco3: questi promettenti risultati costituiscono la scintilla che ha innescato una serie di studi mirati a valutare l’efficacia delle gliflozine nei pazienti con insufficienza cardiaca anche in assenza di diabete.

A. Battagliese: Quali evidenza abbiamo nei pazienti diabetici?

C. Borghi: Al momento gli SGLT2I approvati dall’EMA per il trattamento di pazienti con diabete mellito tipo II sono quattro: dapagliflozin, empagliflozin, canagliflozin ed ertugliflozin. Nello studio EMPA-REG OUTCOME l’utilizzo di empagliflozin in pazienti diabetici con malattia cardiovascolare nota ha ridotto l’end point composito primario (morte per eventi cardiovascolari, IMA non fatale, stroke non fatale) del 14% in comparativa col placebo. Questo è dovuto principalmente ad una riduzione del 38% di morte per eventi cardiovascolari, associata ad una riduzione del tasso di ricoveri per scompenso cardiaco3. I benefici osservati nei pazienti affetti da insufficienza cardiaca sono stati poi confermati per altre gliflozine: nello studio CANVAS l’utilizzo di canagliflozin ha dimostrato una riduzione significativa del 33% dei tassi di ospedalizzazione per scompenso cardiaco nei pazienti diabetici ad alto rischio cardiovascolare. L’utilizzo di dapagliflozin rispetto al placebo nello studio DECLARE-TIMI-58 ha dimostrato, in linea con le altre molecole della medesima categoria, una riduzione dell’ospedalizzazione per scompenso cardiaco nei pazienti diabetici ad alto rischio cardiovascolare con e senza frazione d’eiezione ridotta; tuttavia, la riduzione della mortalità globale e per eventi cardiovascolari è stata osservata solamente nei pazienti con insufficienza cardiaca a frazione d’eiezione inferiore al 45%. Nel trial VERTIS-CV l’utilizzo di ertugliflozin non ha dimostrato, pur avendo gli stessi effetti sul controllo glicemico, alcun beneficio rispetto al placebo nella riduzione dei decessi per eventi cardiovascolari e nell’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori in pazienti diabetici, contrariamente alle molecole appartenenti alla medesima classe 4. Un certo beneficio è comunque emerso riguardo la riduzione del rischio di ospedalizzazione per scompenso cardiaco5, avvalorando ulteriormente l’ipotesi di un effetto di classe delle gliflozine in questa categoria di pazienti (tabella 1).

A. Battagliese: Sembrerebbe che questi farmaci funzionino molto bene nei pazienti con scompenso cardiaco frazione di eiezione ridotta, anche in assenza di diabete. Quali sono le evidenze disponibili?

C. Borghi: I vantaggi che la maggioranza degli SGLT2 inibitori sembrano conferire nei pazienti con insufficienza cardiaca sono stati approfonditi in due trial clinici costruiti ad hoc, studiati per valutare se il beneficio riscontrato fosse concreto anche nei pazienti non diabetici: il DAPA-HF trial e l’EMPEROR-Reduced trial.

DAPA-HF trial

Nello studio DAPA-HF6 (multicentrico, in doppio-cieco e versus placebo) sono stati arruolati 4744 pazienti diabetici e non diabetici con insufficienza cardiaca a frazione d’eiezione ridotta (HFrEF) e una classe NYHA II, III o IV. Tutti i pazienti assumevano la terapia ottimale per HFrEF ed in aggiunta hanno ricevuto 10 mg di dapagliflozin o placebo una volta al giorno. I pazienti diabetici hanno continuato ad assumere la terapia ipoglicemizzante. L’outcome composito primario era volto a determinare se dapagliflozin, in aggiunta alla terapia standard, fosse superiore al placebo nel ridurre l’incidenza di riacutizzazione di scompenso cardiaco (tale da necessitare un’ospedalizzazione o una visita urgente con somministrazione di una terapia endovenosa) o il decesso per cause cardiovascolari. Negli outcome secondari erano inclusi l’ospedalizzazione per scompenso cardiaco, il decesso per cause cardiovascolari, la sintomatologia a otto mesi basata sullo score Kansas City Cardiomyopathy Questionnaire (KCCQ), un peggioramento della funzionalità renale e il decesso per tutte le cause. Ad un follow-up di 18.2 mesi, dapagliflozin ha dimostrato di ridurre in maniera significativa l’endpoint composito primario se paragonato al placebo (dapagliflozin 16.3% vs placebo 21.2%; HR 0.74, p<0.001), il tasso di ospedalizzazioni per scompenso cardiaco (dapagliflozin 9.7% vs placebo 13.4%; HR 0.70) e il numero di decessi per cause cardiovascolari (9.6% vs 11.5%; HR 0.82). Dapagliflozin ha dimostrato inoltre di ridurre l’incidenza di decessi per tutte le cause rispetto al placebo (11.6% vs 13.9%, HR 0.83) ed un miglioramento a otto mesi della sintomatologia in base allo score KCCQ (p<0.001). Il numero di pazienti sottoposti a trattamento necessari per prevenire un endpoint primario (NNT) è stato 21. I benefici sull’outcome primario si sono rivelati consistenti nei diversi sottogruppi, inclusi i pazienti diabetici; tuttavia, i pazienti in classe NYHA III o IV parrebbero aver riscontrato un beneficio inferiore rispetto ai pazienti in classe II. Non sono state riscontrate differenze tra i due gruppi nel tasso di eventi avversi legati alla deplezione di volume, peggioramento della funzionalità renale e ipoglicemia.

EMPEROR-Reduced trial

In questo studio multicentrico, randomizzato e in doppio-cieco è stata valutata l’efficacia e la sicurezza di empagliflozin su 3730 pazienti affetti da insufficienza cardiaca con frazione d’eiezione minore o uguale al 40% ed in classe NYHA II, III o IV7. Il protocollo prevedeva la somministrazione di empagliflozin 10 mg o placebo una volta al giorno in aggiunta alla terapia ottimale raccomandata. Ad un follow-up di 16 mesi empagliflozin si è dimostrato efficace rispetto al placebo nel ridurre i decessi per cause cardiovascolari e il tasso di ospedalizzazione per scompenso cardiaco (19.4% vs 24.7%; HR 0.75, p<0.001) nei pazienti con e senza diabete mellito tipo II. Empagliflozin ha influito in maniera favorevole rispetto al placebo anche sugli outcome secondari, rappresentati dal numero totale di ospedalizzazioni per scompenso cardiaco (388 eventi vs 553 eventi; HR 0.70, p<0.001) e dal tasso di declino della funzionalità renale (-0.55 mL/min per 1.73 m2 ogni anno vs -2.28 mL/min per 1.73 m2 ogni anno; p<0.001). Il numero di pazienti sottoposti a trattamento necessari per prevenire un endpoint primario è stato 19 (NNT). Le infezioni uro-genitali non complicate si sono rivelate più frequenti nei pazienti trattati con empagliflozin rispetto al placebo ( 1.7% vs 0.6%), mentre il tasso di ipoglicemie, amputazione degli arti inferiori e fratture ossee non è risultato differente tra i due gruppi.

A. Battagliese: Ci sono dati in letteratura di utilizzo delle gliflozine in pazienti con insufficienza cardiaca a frazione d’eiezione preservata?

C. Borghi: Attualmente sono in corso due trial clinici con l’obiettivo di valutare eventuali benefici della terapia con gliflozine nei pazienti con scompenso cardiaco a frazione d’eiezione preservata, l’EMPEROR-Preserved e il DELIVER.

DELIVER trial

Si tratta di uno studio multicentrico, randomizzato, in doppio cieco con l’obiettivo di valutare gli effetti di dapagliflozin sulla morbilità e mortalità nei pazienti con HFpEF, indipendentemente dalla presenza o meno di diabete mellito tipo II8. Lo studio è iniziato ad agosto 2018 e verrà completato a giugno 2021, con un totale di circa 6100 partecipanti. L’outcome primario prevede il decesso per cause cardiovascolari, una riacutizzazione di scompenso cardiaco che necessita l’ospedalizzazione o la necessità di eseguire una visita urgente. Lo studio determinerà se i benefici osservati nei pazienti con HFrEF risultano consistenti anche nei pazienti con HFpEF; tale risultato appare di particolare importanza poiché al giorno d’oggi nessun farmaco ha dimostrato alcun beneficio in questa categoria di pazienti.

EMPEROR-Preserved trial

Analogamente allo studio EMPEROR-Reduced trattasi di un trial multicentrico, randomizzato, in doppio cieco con l’obiettivo di studiare l’effetto di empagliflozin in aggiunta alla terapia medica standard nei pazienti con HFpEF9. I partecipanti arruolati sono 5989. L’outcome primario prevede la morte per cause cardiovascolari o la necessità di ricovero ospedaliero per riacutizzazione di scompenso cardiaco.

L’aggiunta di empagliflozin 10 mg/die rispetto a placebo ha determinato una netta e significativa riduzione relativa dell’obiettivo composito primario, morte cardiovascolare e ospedalizzazione per scompenso cardico, del 21% (6,9 vs 8,7 eventi per 100 pazienti/anno; HR 0,79; 95% CI, 0,69-0,90; p<0,001). Il numero di pazienti da trattare con empagliflozin per 26 mesi al fine di evitare un evento (NNT) è stato di 31.

L’analisi scomposta ha documentato una marcata e significativa riduzione delle ospedalizzazioni per scompenso cardiaco di circa il 30% (HR 0,71; 95% CI0,60-0,83). Si è assistito ad un trend di riduzione della mortalità cardiovascolare di circa il 10% risultato, tuttavia, non significativo (HR 0.91; 95% CI, 0.76 to 1.09).

L’analisi prespecificata per sottogruppi ha evidenziato una consistenza dell’effetto di empagliflozin a prescindere dalla presenza o meno di diabete, dal sesso (il sesso femminile era quello che traeva maggiore vantaggio nello studio PARAGON HF), dal grado di compromissione renale (erano esclusi i pazienti con GFR < 20 ml/min/1,73m2), dai livelli di BNP, dalla assunzione o meno di terapia con ACE-I, ARB o ARNI.

Discorso a parte merita l’analisi per sottogruppi di frazione di eiezione con un beneficio significativo per valori di frazione di eiezione del ventricolo sinistro fino al 60% al di sopra del quale si perde la significatività statistica.

Per quanto riguarda l’obiettivo secondario si è assistito ad una significativa riduzione del numero totale di ospedalizzazioni per scompenso cardiaco nel gruppo randomizzato a empagliflozin (HR, 0.73; 95% CI, 0.61 to 0.88; P<0.001).

Il tasso di diminuzione del filtrato glomerulare è stato più lento nel gruppo empagliflozin rispetto al gruppo placebo (–1,25 vs. –2,62 ml al minuto per 1,73 m2 all’anno; P<0,001). Non si è osservata nessuna differenza in termini di mortalità totale tra i due bracci di trattamento. (HR, 1,00; IC 95%, da 0,87 a 1,15).

Empagliflozin ha determinato un significativo miglioramento della qualità di vita e della classe funzionale.

Nessuna differenza significativa in termini di eventi avversi seri o responsabili di sospensione del trattamento. Come prevedibile il tasso di infezioni non complicate del tratto genito-urinario e di ipotensione è risultato più elevato nel gruppo di trattamento.

In conclusione in pazienti con scompenso cardiaco e frazione di eiezione superiore al 40% empagliflozin riduce l’end point primario composto morte cardiovascolare e ospedalizzazione per scompenso cardiaco del 21% con una riduzione prevalente delle ospedalizzazioni per scompenso cardiaco del 29% rispetto a placebo.

A. Battagliese: Professore potrebbe spiegarci il meccanismo d’azione di questi farmaci?

C. Borghi: In un individuo normoglicemico la concentrazione di glucosio che giunge quotidianamente al nefrone è pari a 162-180g/die. Tale quantità viene completamente riassorbita in corrispondenza del tubulo contorto prossimale grazie alla presenza, a questo livello, di co-trasportatori sodio-glucosio (SGLTs).  Di questi, il responsabile del riassorbimento del 90% di glucosio filtrato è rappresentato da SGLT2, espresso prevalentemente a livello del tratto S1 del tubulo contorto prossimale. I farmaci SGLT2 inibitori, chiamati gliflozine, esplicano il loro effetto mediante il blocco selettivo di questi trasportatori impedendo il riassorbimento tubulare di glucosio e favorendone l’escrezione renale3. Di seguito sono discussi alcuni meccanismi (figura 1) potenzialmente alla base dei benefici ottenuti nei pazienti con insufficienza cardiaca, non spiegabili solamente con una riduzione dell’emoglobina glicata ed un aumento della natriuresi.

Figura 1: Principali effetti esercitati dai farmaci SGLT2 inibitori a livello cardiovascolare e renale

A. Battagliese: Potremmo quindi definire questi farmaci come diuretici “intelligenti”?

C. Borghi: I farmaci SGLT2I non riducono solamente il riassorbimento di glucosio ma anche quello di sodio, determinando un effetto diuretico. La vera peculiarità di queste molecole che le differenzia dai canonici diuretici dell’ansa, tuttavia, è la capacità di stimolare una diuresi osmotica: il glucosio non riassorbito a livello del tubulo contorto prossimale giunge a livello del nefrone distale, provocando un aumento dell’osmolarità tubulare e riducendo il gradiente osmotico tra il liquido tubulare e l’interstizio; ne consegue una riduzione del riassorbimento passivo di acqua a livello dei dotti collettori ed un aumento della clearance dell’acqua libera10. Contrariamente ai diuretici dell’ansa, il meccanismo d’azione degli SGLT2I comporta una riduzione maggiore dei liquidi a carico del compartimento interstiziale rispetto al volume intravascolare, determinando un minor impatto sul volume circolante efficace e la perfusione tissutale11 ma riducendo il quadro di congestione che caratterizza lo scompenso cardiaco. Questo comporta una maggiore riduzione del precarico ed un rimodellamento cardiaco inverso9.

Come conseguenza dell’effetto glicosurico i farmaci SGLT2I conducono ad un bilancio energetico negativo; a livello metabolico tale condizione di “fasting-mimicry” induce una cardio-protezione mediante l’attivazione della via di segnalazione SIRT1/AMPK che termina nella soppressione di Akt/mTOR12. Tale meccanismo indurrebbe nei cardiomiociti uno stato metabolico simile a quello osservato nelle condizioni di digiuno prolungato, che comporta una serie di vantaggi: riduzione dello stress ossidativo, normalizzazione della funzione mitocondriale, riduzione dell’infiammazione, aumento dell’attività contrattile ed aumento delle capacità di autofagia12.

E’ stato dimostrato che i farmaci SGLT2I downregolano anche l’antiporto Na+/H+, con una conseguente riduzione della concentrazione di sodio e calcio a livello del citoplasma dei cardiomiociti, ed un conseguente aumento delle concentrazioni di calcio mitocondriale, determinando così un aumento della sintesi di ATP e un miglioramento dell’attività contrattile cardiaca13.

A. Battagliese: Nella pratica clinica come potremmo impiegare le gliflozine nei pazienti con scompenso cardiaco?

C. Borghi: I benefici ottenuti nei diversi trial clinici hanno portato all’approvazione da parte dell’EMA dell’utilizzo di dapagliflozin in assenza di diabete nei pazienti con HFrEF; l’utilizzo di altri SGLT2 inibitori per la medesima indicazione è attualmente off-label in Europa. Le ultime linee guida europee raccomandano dapagliflozin e empagliflozin in prima battuta nei pazienti con scompenso cardiaco a frazione di eiezione ridotta il classe I e livello di evidenza A.16

I pazienti che possono beneficiare della terapia con gliflozine dovrebbero avere un GFR ≥ 30 mL/min, pur notando come il valore minimo di GFR per l’inclusione nello studio EMPEROR-Reduced fosse 20 mL/min7.

A differenza delle altre terapie per l’HFrEF la dose terapeutica raccomandata, sia per dapagliflozin che per empagliflozin, è di 10 mg una volta al giorno senza titolazione. Le infezioni delle vie urinarie e nello specifico le infezioni micotiche, rappresentano la principale complicanza associata all’utilizzo di questi farmaci, in particolar modo nei soggetti di sesso femminile. Queste infezioni, generalmente lievi, solitamente non pregiudicano il proseguimento della terapia3. È importante inoltre informare il paziente sul possibile rischio di eventi correlati ad una deplezione di volume come l’insorgenza di ipotensione ortostatica, in particolare se concomita l’assunzione di diuretici dell’ansa. Infine, l’aumentato rischio per amputazioni e fratture ossee, osservato inizialmente solo con canagliflozin, non è stato successivamente confermato14.  

Un ragionevole approccio terapeutico potrebbe prevedere l’aggiunta di un SGLT2I ad un paziente già in terapia con la massima dose tollerata di RAAS inibitore e beta bloccante.

Elementi a favore di una precoce introduzione in terapia potrebbero essere rappresentati dalla presenza di diabete mellito tipo II con scarso controllo glicemico e/o dei valori di pressione arteriosa che non consentono un’escalation della terapia; quest’ultimo punto è di particolare importanza poiché, come dimostrato nello studio DAPA-HF, pare che gli SGLT2I riducano i valori di pressione arteriosa sistolica solamente di 1.3 mmHg se paragonati al placebo15.

I farmaci SGLT2 inibitori costituiscono un nuovo efficace strumento terapeutico per il trattamento dell’HFrEF che i clinici dovrebbero iniziare ad utilizzare nella pratica quotidiana. Se anche i risultati del trial DELIVER confermeranno i dati dello studio EMPEROR-Preserved, sarà finalmente possibile disporre di un’opzione terapeutica sicura ed efficace anche per i pazienti con HFpEF.

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