Dati a lungo termine dell’ISCHEMIA trial sul confronto fra terapia medica ottimale e PTCA
di A. Battagliese intervista Leonardo Bolognese
18 Marzo 2023

Battagliese: Gentilissimo dott. Bolognese l’ISCHEMIA  trial è uno studio molto importante e nello stesso tempo molto controverso e discusso. Ce ne parla brevemente?

Bolognese: Lo scopo dello studio ISCHEMIA è stato quello di valutare se una strategia invasiva, caratterizzata da coronarografia e rivascolarizzazione associata alla terapia medica raccomandata dalle linee guida (GDMT), riducesse l’incidenza di eventi cardiovascolari (CV) nei pazienti affetti da cardiopatia ischemica cronica (CIC) (1). Lo studio ha coinvolto 5179 pazienti con dimostrata ischemia inducibile di entità moderata o severa, randomizzati a ricevere un’iniziale strategia invasiva mediante GDMT e coronarografia, con eventuale rivascolarizzazione in caso di dimostrate lesioni coronariche significative, o la sola GDMT, con successiva coronarografia ed angioplastica in caso di insuccesso della terapia medica.

Già in passato diversi trial avevano confrontato le due strategie terapeutiche nei pazienti affetti da CIC (2-4), tuttavia a differenza di questi studi nell’ISCHEMIA erano qualificabili all’arruolamento solo pazienti con dimostrata ischemia inducibile di grado almeno moderato e la randomizzazione avveniva prima dell’angiografia coronarica.

L’obiettivo primario dello studio ISCHEMIA era costituito da un endpoint composito di mortalità cardiovascolare, infarto miocardico (IM), o ospedalizzazione per angina instabile, scompenso cardiaco o arresto cardiaco resuscitato. Obiettivi secondari erano un endpoint composito di morte cardiovascolare o infarto miocardico e la qualità della vita correlata all’angina. Ad un follow-up mediano di 3,2 anni lo studio ha dimostrato che la strategia conservativa non è inferiore a quella invasiva in termini di esito composito primario (1). Tuttavia le due strategie terapeutiche hanno mostrato tassi di rischio non proporzionali, con inversione di tendenza delle curve di sopravvivenza libere da eventi intorno ai 2 anni. La strategia invasiva, infatti, rispetto a quella conservativa, era associata ad un eccesso di rischio precoce per aumento dell’incidenza di IM peri-procedurale. Al contrario, si osservava una progressiva riduzione nel tempo di rischio di IM spontaneo nel gruppo di pazienti assegnati alla strategia invasiva (5).  Le curve di mortalità CV suggerivano una tardiva separazione a favore della strategia invasiva rispetto alla strategia conservativa (6). Viceversa, l’incidenza della mortalità non-CV e per tutte le cause risultava maggiore nella strategia invasiva (6). Questi dati facevano ipotizzare che, essendo in grado di ridurre gli IM spontanei e la mortalità CV, la strategia invasiva potesse dimostrarsi superiore rispetto a una strategia conservativa se si fosse preso in considerazione un periodo di osservazione più lungo (5, 7).

Battagliese: Questo sembrerebbe il razionale dello studio ISCHEMIA-EXTENDED?

Bolognese: Lo studio osservazionale ISCHEMIA-EXTEND, finanziato dal National Heart, Lung, and Blood Institute, ha lo scopo di valutare l’effetto a lungo termine della strategia invasiva sulla mortalità, includendo pazienti già coinvolti nello studio ISCHEMIA con un follow-up mediano prossimo ai 10 anni.

Recentemente è stata pubblicata un’analisi ad interim a 7 anni di follow-up dello studio ISCHEMIA-EXTEND sui tassi di mortalità per cause CV e non-CV (8). Contrariamente a quanto mostrato dallo studio originario, i pazienti sottoposti a trattamento iniziale invasivo hanno avuto una riduzione assoluta della mortalità per eventi CV a 7 anni del 2.2% (stima del numero necessario di pazienti da trattare per prevenire l’evento pari a 45). Ciò è coerente con quanto documentato in una precedente meta-analisi che riportava una riduzione del 21% delle probabilità di eventi fatali CV associata a una strategia invasiva (9). Tale beneficio è stato tuttavia controbilanciato da un incremento in termini assoluti della mortalità non-CV pari al 1.2% (numero necessario di pazienti da trattare affinché si verifichi un evento avverso pari a 83).  Gli autori concludono che, considerata la probabilità prossima al 50% in termini di sopravvivenza per entrambe le strategie terapeutiche, non ci sono differenze clinicamente significative sulla probabilità di eventi fatali a 7 anni tra i due gruppi.

Battagliese: Come spiega l’incremento delle morti non cardiache nel braccio sottoposto a terapia immediatamente invasiva?

Bolognese: Ili Autori riconoscono alcune limitazioni dello studio quali la mancanza di una valutazione centralizzata degli eventi fatali, con possibile non univocità dell’interpretazione, e la raccolta limitata di dati. In particolare, non sono stati raccolti dati inerenti gli eventi non fatali, la terapia farmacologica assunta o gli interventi di rivascolarizzazione, la frequenza di angina, o la qualità di vita dopo il follow-up iniziale di 3,2 anni.

Rimangono pertanto numerose questioni in sospeso che necessitano di essere valutate: i risultati dell’ISCHEMIA-EXTEND sono destinati a modificare la pratica clinica? Siamo in grado di individuare quei pazienti affetti da cardiopatia ischemica cronica nei quali il significativo beneficio sugli eventi fatali cardiovascolari della strategia invasiva iniziale giustifichi l’aumentato rischio di morte per eventi non-cardiovascolari?  La causa di morte negli studi clinici e nella pratica clinica: quale ci interessa?

Battagliese: Nello studio non si è osservata una eterogeneità dell’effetto del trattamento. È corretto?

Bolognese: Il concetto dell’eterogeneità degli effetti del trattamento diventa rilevante ogni qualvolta proviamo ad applicare i risultati degli studi ai singoli pazienti. Nel caso dello studio in esame, ci si potrebbe aspettare che una strategia invasiva precoce avesse un impatto maggiore sulla mortalità CV nei pazienti con maggior rischio CV.

Ad esempio, analisi precedenti dello studio ISCHEMIA hanno dimostrato che la gravità della malattia coronarica era fortemente associata alla mortalità (10). Sfortunatamente l’eterogeneità dell’effetto del trattamento non sembra caratterizzare i risultati provvisori dell’ISCHEMIA-EXTEND. Infatti, analizzando la mortalità per tutte le cause, non è stata riscontrata eterogeneità dell’effetto del trattamento nemmeno all’analisi per sottogruppi di pazienti che potessero beneficiare di un approccio invasivo iniziale, come nel caso di individui con coronaropatia multivasale. Possibili spiegazioni per tale fenomeno includono l’insufficiente potenza statistica dei dati per documentare tale eterogeneità e l’eventuale necessità di un follow-up ancora più lungo per identificare uno specifico gruppo di pazienti in cui una strategia invasiva precoce possa determinare un beneficio in termini di mortalità globale. I ricercatori prevedono di proseguire il follow-up fino a un massimo di 10 anni per continuare a valutare eventuali differenze in termini di mortalità tra i due gruppi di pazienti.

Battagliese: Quali sono stati i principali determinanti della mortalità non cardiovascolare nei pazienti con cardiopatia ischemica cronica nello studio?

Bolognese: Il più alto tasso di eventi fatali non-CV nel gruppo di pazienti sottoposti a trattamento invasivo è stato un dato inaspettato che rimane tuttora inspiegato.

Capire quali fattori influenzano maggiormente la mortalità non-CV a seguito di una strategia iniziale invasiva ha importanti implicazioni cliniche. Nello studio ISCHEMIA le principali cause di morte non CV riportate dagli Autori erano rappresentate dalle neoplasie e le infezioni (6).

Sfortunatamente, lo studio ISCHEMIA-EXTEND non può fornire dati più specifici sulle cause di morte, impedendo ulteriori inferenze su meccanismi ancora non noti attraverso i quali la rivascolarizzazione miocardica aumenterebbe gli eventi fatali non-CV. Nello studio ISCHEMIA i ricercatori avevano documentato una maggior incidenza di neoplasie nel gruppo di pazienti sottoposti a strategia invasiva, malgrado la percentuale basale di neoplasia fosse simile nei due bracci dello studio (6). Inoltre dalla stessa analisi si documentava una stretta correlazione tra morte per neoplasie e numero di procedure eseguite dal paziente con necessità di esposizione a radiazioni ionizzanti (scintigrafia miocardica da stress, tomografia computerizzata, cateterismo cardiaco e angioplastica coronarica). Tuttavia il nesso temporale tra esposizione radiologica e nuove diagnosi di neoplasie o morte per cause neoplastiche non sembra essere biologicamente plausibile quale causa di un incremento della mortalità non-CV, considerando che la latenza tra danno radiologico e insorgenza di tumore clinicamente diagnosticabile è stimata essere molto maggiore del periodo di osservazione dello studio (11).

La necessità di terapia anti-aggregante potrebbe rappresentare un ulteriore determinante dell’aumento della mortalità non-CV da neoplasie aumentando il rischio emorragico e slatentizzando neoplasie altrimenti misconosciute. Tuttavia, il maggior impiego della duplice terapia antiaggregante (DAPT) nei pazienti sottoposti a trattamento invasivo nell’ISCHEMIA non era associato a una maggior incidenza di neoplasie durante il periodo di osservazione dello studio. D’altra parte, la DAPT è stata precedentemente correlata ad una maggior incidenza di morti non-CV in un singolo studio di grandi dimensioni (12), ma non in una meta-analisi condotta sui dati individuali (13). Le evidenze suggeriscono che la durata maggiore della duplice terapia anti-aggregante è associata ad un rischio aumentato di mortalità non-CV (13). Le ragioni di tale associazione non sono pienamente comprese, ma devono essere associate alla maggior incidenza di eventi emorragici maggiori (spesso considerati come eventi non cardiaci) o a maggiore mortalità legata al sanguinamento in caso di trauma o altri eventi acuti in pazienti trattati con DAPT.

In conclusione, malgrado i potenziali meccanismi appena descritti, la relazione tra procedure invasive e mortalità non-CV non è chiara e merita ulteriori approfondimenti.

Battagliese: Quale dovrebbe essere l’endpoint primario negli studi di rivascolarizzazione?

Bolognese: I risultati emersi dallo studio ISCHEMIA-EXTEND fanno emergere alcuni interrogativi inerenti soprattutto gli end-point principali da valutare negli studi e nelle meta-analisi sulla rivascolarizzazione miocardica.

Negli studi clinici la mortalità totale è considerata un endpoint robusto e affidabile, in grado di descrivere efficacemente e in egual misura tanto i rischi quanto i benefici di un trattamento. Tuttavia, per determinati interventi terapeutici l’obiettivo primario dovrebbe essere più specifico della mortalità totale. In peculiari scenari clinici, compresa la rivascolarizzazione miocardica, l’uso della mortalità per tutte le cause come parametro di riferimento rimane controverso e dibattuto (14) tanto che in molti studi, incluso l’ISCHEMIA, l’endpoint composito primario considera la morte per cause specifiche e non la morte per tutte le cause.

L’effetto del trattamento sulla mortalità da cause specifiche tende ad annullarsi nel tempo per il concomitante incremento del rischio competitivo da comorbidità che non possono essere modificate dallo specifico intervento terapeutico oggetto dello studio e che incidono sulla mortalità totale (15). Nel caso specifico, il rischio competitivo di eventi fatali non cardiovascolari, che limita l’effetto della rivascolarizzazione sulla mortalità globale, viene progressivamente amplificato man mano che il follow-up si allunga, limitando l’affidabilità della mortalità per tutte le cause come obiettivo primario (16). Più lungo è il follow-up, maggiore è la probabilità che si verifichino decessi per eventi non cardiovascolari, diluendo l’impatto di un trattamento randomizzato sulla mortalità totale, anche se vi è un effetto sulla mortalità cardiaca. I ricercatori dell’ISCHEMIA-EXTEND hanno dichiarato che, considerata la bassa percentuale di mortalità totale, è piuttosto improbabile che il rischio aggiuntivo di morte non-CV nei pazienti trattati invasivamente sia spiegabile con il fenomeno dei rischi competitivi; infatti l’incidenza di mortalità CV dovrebbe essere sensibilmente più elevata affinché il fenomeno dei rischi competitivi sia sufficiente a giustificare l’apparente differenza osservata in termini di mortalità  non-CV tra i due gruppi. Tuttavia, un potenziale problema che limita l’analisi della mortalità non-CV è la precedentemente menzionata limitata raccolta di dati, sicuramente inadeguata per la valutazione del rischio non-CV.

Dal punto di vista metodologico scientifico la mortalità totale può essere accertata più facilmente rispetto alla morte cardiovascolare, costituendo un endpoint meno influenzabile e più affidabile. Inoltre gli effetti della rivascolarizzazione coronarica non sarebbero mitigati se includessimo la morte totale come componente dell’esito primario (piuttosto che la morte CV).

Dal punto di vista clinico, la principale utilità del controllo delle cause di morte è quella di pianificare strategie di mitigazione del rischio, con l’obiettivo di ridurre le componenti specifiche maggiormente responsabili della mortalità complessiva.

Contestualizzati nello scenario post-rivascolarizzazione coronarica, tali dati rinforzano l’importanza della prevenzione secondaria per prevenire nuovi eventi CV soprattutto nei pazienti con CIC, una popolazione a più alto rischio di avere una morte correlata all’IM. In questo contesto la mortalità CV assume un valore ancora più importante rispetto alla mortalità totale e non-CV.

Battagliese: In conclusione qual è il messaggio che dobbiamo cogliere dallo studio ISCHEMIA prendendo in considerazione anche i dati del follow up a 7 anni?

Bolognese: Il rapporto provvisorio dello studio ISCHEMIA-EXTEND mostra l’assenza di differenze in termini di mortalità totale fino a 7 anni tra le due strategie terapeutiche studiate, sebbene con un più basso rischio di eventi fatali cardiovascolari e un maggior rischio di quelli non cardiovascolari nel gruppo di pazienti sottoposti a trattamento invasivo precoce.

La maggior incidenza di eventi non cardiovascolari nel gruppo invasivo è stata inaspettata e rimane ingiustificata, necessitando di future indagini.

Globalmente il follow-up esteso dello studio fornisce prove molto più robuste sull’effetto neutrale delle due strategie sulla sopravvivenza.

In realtà, quando lo studio ISCHEMIA venne disegnato, l’obiettivo era di valutare se una strategia invasiva potesse definitivamente ridurre gli eventi cardiovascolari, quali la mortalità CV e l’infarto miocardico. I risultati sembrano soddisfare questa aspettativa: una strategia invasiva riduce l’incidenza dell’IM spontaneo precocemente e la morte CV a lungo termine.

Questi risultati potrebbero essere di ausilio nella pratica clinica nel prendere decisioni condivise sull’opportunità di aggiungere, in pazienti selezionati, l’opzione invasiva precoce alla terapia medica ottimale.

Grazie Dottore.

BIBLIOGRAFIA

  1. Maron DJ, Hochman JS, Reynolds HR et al. Initial invasive or conservative strategy for stable coronary disease. N Engl J Med 2020;382:1395–407
  2. Boden WE, O’Rourke RA, Teo KK, et al. Optimal medical therapy with or without PCI for stable coronary disease. N Engl J Med 2007;356:1503–16 .
  3. BARI 2D Study Group. A randomized trial of therapies for type 2 diabetes and coronary artery disease. N Engl J Med 2009;360:2503–15 .
  4. De Bruyne B, Fearon WF, Pijls NH. Fractional flow reserve–guided PCI for stable coronary artery disease. N Engl J Med 2014;371:1208–17
  5. Chaitman BR, Alexander KP, Cyr DD et al.  Myocardial infarction in the ISCHEMIA trial: impact of different definitions on incidence, prognosis, and treatment comparisons. Circulation 2021;143:790–804
  6. Sidhu MS, Alexander KP, Huang Z et al.  Causes of cardiovascular and noncardiovascular death in the ISCHEMIA trial. Am Heart J 2022;248:72–83
  7. Bangalore S, Pencina MJ, Kleiman NS, Cohen DJ. Prognostic implications of procedural vs spontaneous myocardial infarction: Results from the Evaluation of Drug Eluting Stents and Ischemic Events (EVENT) registry. Am Heart J. 2013; 166:1027-1034
  8. Hochman JS, Anthopolos R, Reynolds HR Circulation. 2022 Nov 6. doi: 10.1161/CIRCULATIONAHA.122.062714
  9. Navarese EP, Lansky AJ, Kereiakes DJ et al. Cardiac mortality in patients randomised to elective coronary revascularisation plus medical therapy or medical therapy alone: a systematic review and meta-analysis. European Heart Journal. 2021;42:4638-4651
  10. Reynolds HR, Shaw LJ, Min JK,  et al. Outcomes in the ISCHEMIA trial based on coronary artery disease and ischemia severity. Circulation. 2021; 144:1024-1038
  11. Linet MS, Slovis TL, Miller DL, et al. Cancer risks associated with external radiation from diagnostic imaging procedures. Ca Cancer J Clin 2012; 62:75–100
  12. Palmerini T, Sangiorgi D, Valgimigli M, et al. Short- versus long-term dual antiplatelet therapy after drug-eluting stent implantation: an individual patient data pairwise and network meta-analysis. J AmColl Cardiol. 2015; 65(11): 1092-1102
  13. Palmerini T, Benedetto U, Bacchi-Reggiani L, et al. Mortality in patients treated with extended duration dual antiplatelet therapy after drug-eluting stent implantation: a pairwise and Bayesian network meta-analysis of randomised trials. Lancet. 2015;385(9985):2371-2382
  14. Lauer MS, Blackstone EH, Young JB, Topol EJ. Cause of death in clinical research: time for a reassessment? J AmColl Cardiol. 1999;34(3):618-620)
  15. Seto AH. Limitations of long-term mortality as a clinical trial endpoint: time wounds all healing. J Am Coll Cardiol 2020;76:900–902.
  16. Austin PC, Lee DS, Fine JP Introduction to the Analysis of Survival Data in the Presence of Competing Risks Circulation. 2016;133:601–609
  17.