Correlazione tra fattori di rischio e declino cognitivo
di Camilla Cavallaro intervista G. Desideri
08 Ottobre 2021

C. Cavallaro: Prof. Desideri, nella sua interessante relazione lei afferma che la comparsa di un declino cognitivo, fino alla demenza conclamata, non rappresenti il destino ineludibile di tutti quelli che invecchiano. Quali sarebbero i fattori di rischio associati allo sviluppo di declino cognitivo e demenza?

G. Desideri: Un crescente numero di evidenze scientifiche dimostra che l’ esposizione cronica nel corso della vita, a partire dall’età giovane-adulta, ai diversi fattori di rischio ( ipertensione arteriosa, diabete mellito, obesità, fumo di tabacco, disturbi del sonno) contribuisca in misura determinante allo sviluppo di declino cognitivo e demenza nel corso della senescenza. Fortunatamente negli ultimi anni grazie ad un miglioramento degli stili di vita e dell’assistenza sanitaria l’incidenza età-specifica di demenza, si è progressivamente ridotta in molte aree geografiche. Questi fattori di rischio, infatti, possono innescare ed amplificare i diversi meccanismi neuropatologici sottesi allo sviluppo del declino riducendo progressivamente la riserva funzionale del cervello.

C. Cavallaro: C’è una fascia di età in cui è importante iniziare a fare screening e correggere i fattori di rischio?

G. Desideri: Le potenzialità dementigene dei fattori di rischio cardiovascolare iniziano a estrinsecarsi piuttosto precocemente, ragione per cui è fondamentale una loro pronta correzione prima che possano innescare ed amplificare i meccanismi fisiopatologici sottesi al declino cognitivo. Nonostante non siano attualmente disponibili evidenze definitive derivanti da studi di intervento disegnati ad hoc, è lecito asserire che il controllo precoce dei fattori di rischio cardiovascolare possa rappresentare oggi il più efficace strumento di prevenzione della demenza.

C. Cavallaro: Qual è il nesso tra ipertensione arteriosa e sviluppo di demenza?

G. Desideri: La presenza di ipertensione nell’età giovane-adulta si associa ad un aumentato rischio di demenza nell’età avanzata. Nella coorte di 1440 individui di mezza età (media 55 anni) del registro Framingham Offspring la presenza di una pressione sistolica >140 mmHg è risultata associata, nel corso di un follow-up di 18 anni, ad un aumento del 60% dei rischio di demenza e la persistenza di elevati pressori anche in età avanzata (media 60 anni) è risultata associata ad un ulteriore incremento del rischio (HR 2.0, I.C. 95% 1.3-3.1).

C. Cavallaro: Se è vero che l’ipertensione contribuisce ad aggravare ed anticipare lo sviluppo della demenza, possiamo ora dire anche il contrario, ovvero che un adeguato controllo dei valori pressori sia protettivo nei confronti del deterioramento cognitivo?

G. Desideri: Ebbene si. Numerosi studi osservazionali e di intervento nel corso degli ultimi anni hanno portato ad ipotizzare che il trattamento antipertensivo possa rappresentare un prezioso strumento per prevenire la comparsa del deterioramento cognitivo e della demenza. Quattro meta-analisi recentemente pubblicate hanno prodotto l’evidenza univoca di una riduzione della demenza in corso di trattamento antipertensivo senza differenze significative in termini di efficacia protettiva tra le diverse classi di farmaci.  Sempre dal follow up dello studio Framingham Offspring è emerso inoltre  che gli individui con un controllo ottimale di tutti i fattori di rischio cardiovascolare presentano una significativa riduzione del rischio di sviluppare demenza sia di tipo vascolare (HR 0.5, I.C. 95% 0.3-0.8) che di tipo Alzheimer (HR 0.8, I.C. 95%  0.6 – 1.0).

C. Cavallaro: Un punto interessante della sua relazione riguarda l’impatto dei valori pressori troppo bassi nella popolazione molto anziana, potrebbe dirci come l’ipotensione possa rappresentare un pericolo per lo sviluppo di disturbi neurocognitivi?

G. Desideri: E’ interessante notare come nei pazienti anziani l’impatto dell’ipertensione arteriosa sul declino cognitivo tenda a farsi progressivamente meno evidente mentre diventa sempre più rilevante l’impatto di valori pressori bassi. Le cause di questa associazione tra bassi valori pressori e declino cognitivo vanno probabilmente ricercate nella riduzione del flusso ematico cerebrale dovuta a valori pressori troppo bassi in un letto vascolare che, in ragione dell’età e/o della cronica esposizione a fattori di rischio cardiovascolare, ha perso molto della sua capacità di autoregolazione. Non sorprendono, quindi, le evidenze di un più rapido declino cognitivo nei pazienti anziani con bassi valori pressori indotti dal trattamento antipertensivo ma non in quelli spontaneamente ipotesi. E’ evidente, quindi, l’importanza di evitare nel soggetto anziano valori pressori eccessivamente bassi e di ricercare routinariamente l’ipotensione ortostatica in quando questa condizione, molto spesso iatrogena, si associa ad un aumentato rischio di declino cognitivo e demenza.

C. Cavallaro: Passiamo ad un altro fattore di rischio associato significativamente al rischio di demenza, il diabete, in che modo le due patologie sono correlate?

G. Desideri: Ci sono degli importanti determinanti fisiopatologici, quali la condizione di insulino-resistenza, l’aumentato stress ossidativo e  la microinfiammazione cronica, che correlano fisiopatologicamente queste due malattie, tanto da spingere i ricercatori ad etichettare la malattia di Alzheimer come “diabete mellito di tipo 3” . Rimane ancora da confermare però la possibilità di un effetto protettivo nei confronti del declino cognitivo da parte dei diversi trattamenti antidiabete in quanto pochi studi di sono occupati di questa tematica.

C. Cavallaro: Parlando di obesità, qual è il nesso con la demenza? Quali le evidenze attualmente disponibili?

G. Desideri: Gli studi attualmente disponibili suggeriscono da un lato una potenzialità dementigena dell’eccedenza ponderale, che si estrinseca nel corso di decenni e dall’altro un effetto di reverse-causality che rende apparentemente protettiva l’eccedenza ponderale quando la sua relazione con il declino cognitivo viene valutata in intervalli temporali più brevi. L’evidenza di un possibile effetto protettivo del decremento ponderale nei riguardi dello sviluppo di declino cognitivo supporta ulteriormente l’influenza negativa dell’eccesso ponderale sulla cognitività. Attualmente la relazione tra eccedenza ponderale e declino cognitivo è stata oggetto di una recente revisione di 19 studi longitudinali, per un totale di 589.649 individui di età compresa tra 35 e 65 anni seguiti nel corso di un follow-up fino a 42 anni. I risultati dimostrano un aumento rischio di demenza nei pazienti con obesità conclamata (body mass index – BMI >30 kg/m2) ma non nei soggetti in sovrappeso (BMI 25-30 kg/m2).

C. Cavallaro: La relazione tra fumo e declino cognitivo è stata ben definita, quello che però ci chiediamo è: smettere di fumare in età avanzata può comunque determinare una riduzione del rischio di demenza?

G. Desideri: La risposta è si, decidere di astenersi dal fumo di sigaretta anche nell’età geriatrica, riduce il rischio di demenza. Uno studio di coorte, recentemente pubblicato, che ha incluso 46.140 uomini con età >60 anni, ha dimostrato un ridotto rischio di demenza nei soggetti che non avevano mai fumato (hazard ratio 0.81, C I.C. 95% 0.71-0.91) e in quelli che avevano smesso di fumare da almeno 4 anni (hazard ratio 0.86, I.C. 95% 0.75-0.99) rispetto a quelli che avevano continuato a fumare (12). Ricordiamo che i fumatori sono esposti da un lato ad  un aumentato rischio di demenza e dell’altro ad una aumentata probabilità di morire prima dell’età in cui più frequentemente la demenza si sviluppa, aspetto quest’ultimo che inevitabilmente rappresenta un bias interpretativo della relazione tra fumo e rischio di demenza che nel passato ha portato addirittura ad ipotizzare che il fumo potesse rappresentare un fattore protettivo nei riguardi della demenza.

C. Cavallaro: Per quanto riguarda l’esposizione al fumo passivo invece?

G. Desideri: Le potenzialità dementigene del fumo appaiono non poco preoccupanti in relazione alla enorme diffusione dell’abitudine tabagica e dell’ampia proporzione di individui esposti al fumo passivo, stimabile nella misura del 35% degli adulti non fumatori e del 40% dei bambini. L’esposizione al fumo passivo, infatti, è associata ad un maggiore deterioramento della memoria di entità proporzionale alla durata dell’esposizione.

C. Cavallaro: I disturbi del sonno, possono anche questi essere annoverati tra i fattori di rischio per il deterioramento cognitivo?

G. Desideri: Nel corso degli ultimi anni un crescente interesse è stato rivolto dalla letteratura scientifica all’ipotesi che i disturbi del sonno possano condizionare un aumentato rischio di sviluppare sia eventi cardiovascolari che demenza. Due meta-analisi recentemente pubblicate hanno fornito la medesima dimostrazione di un significativo incremento del rischio di demenza nei pazienti che presentavano disturbi del sonno in generale (durata del sonno breve o lunga, qualità del sonno scadenze, alterazioni del ritmo circadiano, insonnia, sindrome delle apnee ostruttive). Questi disturbi del sonno sono risultati associati ad un aumentato rischio di demenza in generale (HR1.2, I.C. 95% 1.1-1.3) e di malattia di Alzheimer (hazard ratio 1.6, I.C. 95% 1.3-1.9). il mio consiglio è quindi quello di  correggere al meglio i disturbi del sonno anche nell’ottica di una prevenzione del declino cognitivo.