Come si cura l’infarto
di Comitato Scientifico del C.L.I.
In vent’anni di esperienza nel trattamento acuto dell’infarto sono emersi due concetti che ne formano la base del trattamento moderno dell’infarto del miocardio:
  1. La riapertura della coronaria va eseguita il più presto possibile dall’inizio dei sintomi.
  2. E’ possibile riaprire direttamente la coronaria che sta causando l’infarto con l’angioplastica mediante palloncino seguita dall’impianto di uno stent .

Per combattere  il più possibile la sofferenza miocardia derivante dall’occlusione della coronaria esistono quindi attualmente due  strategie: La trombolisi  oppure l’angioplastica coronarica. Nel corso degli ultimi 20 anni il ripristino del flusso coronarico è stato realizzato attraverso l’approccio farmacologico (trombolisi), o mediante angioplastica coronarica. La trombolisi può essere applicata nel 60-80% dei casi, mentre l’angioplastica coronarica può trovare indicazione in tutti i pazienti. L’angioplastica primaria presenta un basso rischio di gravi complicanze a differenza della trombolisi, che può essere impiegata in modo non appropriato fino al 10% dei pazienti. La trombolisi presenta inoltre un significativo rischio di ictus. Gli studi clinici, che hanno confrontato le due metodiche hanno evidenziato la superiorità dell’angioplastica primaria nei confronti della trombolisi.

L’applicazione dell’uno o dell’altro trattamento si basa principalmente su  quando e dove  sono iniziati i sintomi dell’infarto.

Trombolisi

Trombolisi significa scioglimento di un trombo. Viene eseguita nell’infarto acuto del miocardio allo scopo di ricanalizzare la coronaria ostruita e di ripristinare il flusso sanguigno con la speranza di ridurre l’estensione dell’infarto che si va instaurando. L’occlusione di una coronaria priva bruscamente di ossigeno le cellule miocardiche a valle dell’ostruzione le quali presentano rapidamente segni di sofferenza. Perché il danno non divenga irreversibile è indispensabile che la rivascolarizzazione mediante trombolisi sia precoce e che il calibro della coronaria, nel punto dove si era formato il trombo non sia troppo ristretto. Solo ripristinando entro breve tempo (entro le sei ore dall’inizio del dolore) un sufficiente flusso di sangue si può sperare di salvare il miocardio colpito dall’ischemia.
Una coronaria ristretta da lungo tempo che ha finito con l’occludersi, trarrà assai scarsi benefici da un eventuale scioglimento del trombo. Le migliori condizioni per la riuscita del trattamento trombolitico sono date dalla presenza di una placca aterosclerotica sottostante al trombo che non restringa il lume coronarico più del 75%, e dal discioglimento del trombo nelle primissime ore dopo la sua formazione, cioè prima che insorga danno miocardico. È importante anche che il tratto di coronaria al di sotto dell’ostruzione conservi un buon calibro.
Tutto questo rende ragione della diversità dei risultati che possono essere ottenuti con la terapia trombolitica. In alcuni casi si osserva la ricanalizzazione della coronaria con recupero più o meno completo del miocardio sottostante, in altri la ricanalizzazione non riesce ad evitare il danno o la morte delle cellule miocardiche perché troppo tardiva o parziale, in altri, infine, l’insuccesso può essere totale per la mancata lisi del trombo ostruente.
Il trattamento trombolitico perde efficacia se eseguito dopo dodici ore dall’inizio del dolore, perché le probabilità di sciogliere il trombo diminuiscono rapidamente. Questa è la principale ragione per cui i successi sono inferiori all’attesa. Purtroppo un problema legato all’uso delle sostanze trombolitiche è rappresentato dal rischio di provocare emorragie  anche fatali (soprattutto emorragia cerebrale).

Le ricerche si sono orientate verso la scoperta di sostanze dotate di attività trombolitica e ridotti effetti collaterali che possano essere iniziate anche fuori dall’ospedale, con minori rischi per il paziente. Una sostanza che è stata di grande aiuto è un’enzima l’ “attivatore tissutale del plasminogeno”, chiamato con la sigla TPA, normalmente presente nel sangue, ma in quantità insufficiente per lisare un trombo.
Dal punto di vista pratico, il vantaggio più importante di questo farmaco rispetto ai precedenti trombolitici, è l’assenza di attività anticoagulante con conseguente riduzione del rischio di emorragie, che sono la complicazione più temuta di questo trattamento.
Il TPA inoltre sembra essere “attratto” dai trombi in formazione. Il suo limite sarebbe tuttavia la sua breve durata d’azione che rende necessaria la contemporanea somministrazione di anticoagulanti. Trombolitici di ultima generazione come il tenecteplase, hanno la caratteristica di essere somministrati molto rapidamente (circa 10 secondi) in bolo, sempre attraverso una vena del braccio. Il Tenecteplase, noto anche come TNK t-PA è una variante dell’Alteplase, ottenuta mediante ingegneria genetica.
Il trattamento trombolitico per via venosa sistemica (attraverso una vena del braccio), dopo la conferma elettrocardiografia della diagnosi di infarto, può essere eseguito con urgenza negli ospedali generali ed anche nelle ambulanze, guadagnando tempo prezioso nella corsa al salvataggio del miocardio. Se i sintomi dell’infarto sono insorti da poco ( meno di due ore) ed il tempo  previsto per l’esecuzione di una coronarografia è lungo ( più di un ora e ½ ) è preferibile utilizzare la trombolisi. La coronarografia potrà essere eseguita successivamente per fare il bilancio preciso dei risultati.
In tutti gli altri casi è preferibile ricorrere all’angioplastica coronarica. Questo intervento, che permette di ripristinare un flusso sanguigno ottimale in circa il 95 per cento dei casi, viene chiamato angioplastica coronarica primaria.

C’è anche una chirurgia dell’infarto

In caso di ostruzione completa di una coronaria il muscolo cardiaco a valle va incontro a necrosi: è l’infarto miocardico. Nessun intervento chirurgico consente il recupero di questa parte di cuore. Salvo rare eccezioni, l’asportazione urgente del muscolo necrotico non ha dato buoni risultati. La cura chirurgica è tuttavia utile o indispensabile in due circostanze. 1. Quando l’infarto ha provocato la perforazione del setto che separa i due ventricoli, causando una comunicazione in-traventricolare assai mal tollerata perché il sangue del ventricolo sinistro, che ha una forte pressione, passa sul destro e quindi nell’arteria polmonare e nel polmone anziché nell’aorta. La chiusura della comunicazione è indispensabile per la sopravvivenza dell’ammalato. 2. Quando l’infarto provoca la rottura o la grave disfunzione di un muscolo papillare, i pilastri che ancorano i lembi della valvola mitrale alle pareti del ventricolo. La loro rottura causa il reflusso massivo del sangue dal ventricolo sinistro nell’atrio ed è una complicanza importante, ma affrontabile sostituendo la valvola mitrale lesionata. Per l’intervento è necessaria la rianimazione che si avvale spesso dell’assistenza circolatoria mediante pallone intraaortico sincronizzato con l’elettrocardiogramma (contropulsazione aortica). Malgrado il sussidio di questo apparecchio, la chirurgia dell’infarto rimane molto grave, e anche se i risultati immediati sono migliorati, quelli a distanza sono sovente mediocri, a causa della notevole estensione della necrosi miocardica.