ARRESTO CARDIACO EXTRAOSPEDALIERO e CORONAROGRAFIA IN EMERGENZA: i risultati dello studio TOMAHAWK
di Laura Gatto
21 Settembre 2021

In pazienti sopravvissuti ad un arresto cardiaco extraospedaliero senza evidenza elettrocardiografica di sopraslivellamento del tratto ST, una strategia di coronarografia precoce, rispetto ad una strategia ritardata, non determina un beneficio sulla mortalità per tutte le cause a 30 gironi. Sono questi i risultati principali dello studio TOMAHAWK, presentati da Stephen Desch durante l’ultimo congresso della Società Europea di Cardiologia e contemporaneamente pubblicati sulla rivista New England Journal of Medicine [1].

Si tratta di uno studio randomizzato, multicentrico, open-label che ha arruolato pazienti con età > 30 anni, sopravvissuti ad un arresto cardiaco extraospedaliero, senza evidenza elettrocardiografica di sopraslivellamento del tratto ST ed in presenza di ritmo di arresto sia defibrillabile che non defibrillabile. I soggetti eleggibili sono stati randomizzati con un rapporto di 1 a 1 all’esecuzione della coronarografia in emergenza (gruppo coronarografia immediata) oppure ad un iniziale trattamento intensivo in cui la coronarografia veniva ritardata (gruppo coronarografia ritardata). Nel primo braccio i pazienti venivano inviati il prima possibile in sala di emodinamica, nel secondo venivano invece ricoverati in un reparto di terapia intensiva dove si iniziava il supporto terapeutico e la valutazione delle cause dell’arresto cardiaco. Nei pazienti del secondo gruppo, in caso di elevata probabilità di sindrome coronarica acuta come trigger per l’arresto cardiaco, la coronarografia non poteva essere effettuata comunque prima di 24 ore, tuttavia poteva essere anticipata in alcune condizioni: evidenza di importante danno miocardico (definito come un incremento della troponina I o T di almeno 70 volte il limite superiore di normalità oppure come un incremento della CK-MB di almeno 10 volte a distanza di sei ore dall’arresto), instabilità elettrica, shock cardiogeno o comparsa di sopraslivellamento del tratto ST.

L’endpoint primario dello studio è stata la mortalità per tutte le cause a 30 giorni. Sono stati invece considerati come endpoint secondari: l’infarto miocardico, il danno neurologico severo definito come un valore di Cerebral Performance Category compreso tra 3 e 5 (dove 3 indica lo stato vegetativo e 5 la morte cerebrale), un composito di morte per tutte le cause e di danno neurologico severo, la lunghezza della degenza in terapia intensiva, le riospedalizzazioni per scompenso cardiaco ed il picco dei marcatori di miocardionecrosi. Sono stati inoltre considerati come outcome di sicurezza le emorragie severe o maggiori, lo stroke e l’insufficienza renale acuta che ha necessitato di terapia sostit.utiva renale.

Dal 2016 al 2019 un totale di 554 pazienti sono stati randomizzati: 281 alla strategia invasiva immediata e 273 alla strategia ritardata. I due gruppi sono risultati abbastanza sovrapponibili per le principali caratteristiche cliniche: età media 70 anni, 30.4% di donne, 37.6% di storia nota di malattia coronarica, tempo medio al ROSC (Return Of Spontaneous Circulation) di 15 minuti, 55% con evidenza di ritmo di arresto defibrillabile. La coronarografia è stata effettuata nel 95.5% dei pazienti del gruppo immediato e nel 62.2% di quelli del gruppo ritardato. In questo braccio l’8.4% dei pazienti è stato tuttavia sottoposto ad uno studio angiografico entro le 24 ore senza che venissero soddisfatti i criteri precedentemente indicati. Il tempo medio trascorso tra l’arresto cardiaco e l’esecuzione della coronarografia è stato di 2.9 ore nel primo braccio e di 46.9 ore nel secondo, con una prevalenza di coronaropatia rispettivamente del 60.7% e del 72.1%. L’incidenza di lesioni coronariche culprit considerate il trigger dell’arresto cardiaco è stata del 38.1% nel gruppo coronarografia immediata e del 43.2% nel gruppo ritardata con una percentuale di rivascolarizzazione rispettivamente del 37.2% e del 43.2%. La maggior parte dei pazienti, in entrambi i gruppi, è stato sottoposta ad ipotermia.

Per quanto riguarda gli endpoint: il tasso di mortalità per tutte le cause a 30 giorni è stato del 54% (143 pazienti) nel gruppo coronarografia immediata e del 46% (122 pazienti) nel gruppo coronarografia ritardata (hazard ratio, 1.28; 95% confidence interval [CI], 1.00 to 1.63; P = 0.06). La causa principale di morte, in entrambi i bracci, è stato il danno anossico cerebrale. L’endpoint secondario composito di morte per tutte le cause e danno neurologico severo si è verificato più frequentemente nei pazienti sottoposti a strategia invasiva immediata (64.3% vs 55.6%, rischio relativo 1.16%). Non si sono invece individuate differenze significative nei tempi di degenza in terapia intensiva, nel picco dei marcatori di miocardionecrosi e nelle reospedalizzazioni per scompenso. I sanguinamenti e la necessità di terapia sostitutiva renale sono stati invece più frequenti nel gruppo che ha eseguito subito lo studio angiografico.

Gli autori dello studio hanno quindi concluso che in questi pazienti con arresto cardiaco extraospedaliero una strategia che preveda l’esecuzione di una coronarografia con carattere di emergenza non determina un beneficio, anzi si associa ad un incremento delle mortalità per tutte le cause e delle sequele neurologiche severe a 30 giorni.

I risultati dello studio TOMAHAWK sono in linea con altre evidenze presenti in letteratura, basti ricordare il COACT (Coronary Angiography after Cardiac Arrest) Trial che due anni fa aveva raggiunto risultati analoghi dimostrando che in pazienti con arresto cardiaco extraospedaliero, senza sopraslivellamento del tratto ST ed in presenza di ritmo defibrillabile, l’esecuzione di una coronarografia in emergenza non si associava ad una prognosi migliore a 30 giorni [2] e ad un anno [3].

Diversi fattori sono stati chiamati in causa per spiegare un simile risultato, innanzitutto il fatto che una lesione culprit, ritenuta responsabile dell’arresto cardiaco, è stata individuata soltanto nel 40% della popolazione, pertanto in questo setting la strategia angiografica immediata perde di beneficio in assenza di possibilità di rivascolarizzare una stenosi causa di ischemia con un parallelo incremento del rischio di complicanze procedurali. Inoltre, in questi pazienti la prognosi sembra essere condizionata più dal danno neurologico che da quello cardiologico.

Probabilmente il fattore che più ha contribuito al fallimento delle strategie invasive precoci risiede nella nostra incapacità di selezionare correttamente quei soggetti che effettivamente potrebbero beneficiare della tempestività di un trattamento riperfusivo immediato. A tal proposito sono stati presi in considerazione vari parametri come ad esempio la presenza di ritmi defibrillabili, le anomalie elettrocardiografiche, la storia clinica di cardiopatia, le alterazioni ecocardiografiche e l’incremento di troponina; tuttavia tutti queste variabili hanno presentato un valore predittivo modesto. Probabilmente gli sforzi che dovremmo fare come comunità scientifica devono essere mirati, nei prossimi anni, ad una più adeguata selezione dei pazienti meritevoli di una coronarografia immediata ed a migliorare in generale l’intensità delle cure di supporto per ridurre la mortalità che in questo setting rimane ancora molto elevata.  

Bibliografia

  1. Desch S, Freund A, Akin I, et al. Angiography after Out-of-Hospital Cardiac Arrest without ST-Segment Elevation. N Engl J Med. 2021 Aug 29. doi: 10.1056/NEJMoa2101909. Online ahead of print
  2. Lemkes JS, Janssens GN, van der Hoeven NW, et al. Coronary angiography after cardiac arrest without ST-segment elevation. N Engl J Med 2019; 380: 1397-407
  3. Lemkes JS, Janssens GN, van der Hoeven NW, et al. Coronary angiography after cardiac arrest without ST segment elevation: one-year outcomes of the COACT randomized clinical trial. JAMA Cardiol 2020; 5: 1358-65